©Fabrizio Troccoli

di Maurizio Troccoli

Lo studio e i voti restano elementi centrali nella crescita di un ragazzo. La scuola è il luogo in cui si acquisiscono competenze, si impara a confrontarsi con le regole e si costruiscono, passo dopo passo, le basi per il futuro. Ma in molte famiglie la pagella ha assunto un ruolo che va oltre la sua funzione educativa, trasformandosi in una sorta di tribunale permanente del valore personale dei figli. Un numero in più o in meno finisce per pesare come un giudizio complessivo sulla persona, sulle sue capacità, sulle aspettative riposte su di lui.

Prima ancora di addentrarci nell’alternativa alla pagella, corre d’obbligo sottolineare come nella crescita sia fondamentale che i figli riconoscano il proprio senso del dovere, apprendano cosa significhi sforzarsi e sacrificarsi per un buon risultato per loro e siano consapevoli di come si possa conquistare un premio, ma anche una punizione. Come cioè i no abbiano importanza educativa alla stessa maniera dei si. Tuttavia esiste un modo per bilanciare la portata della performance per evitare che diventi tossica e ossessiva. Questo avviene quando sproporzionatamente orientata alle aspettative degli altri, più spesso dei genitori.

Quando il rendimento scolastico diventa l’unico metro di valutazione, il rischio è che la spinta al miglioramento si trasformi in pressione costante. Una pressione che non educa, ma restringe lo spazio della curiosità, del tentativo, dell’errore. O persino della socialità. Una pressione che non allarga ma, indottrinando, canalizza e restringe. E che, nei casi più estremi, incide sul benessere emotivo di ragazzi e adolescenti, sempre più chiamati a dimostrare di essere all’altezza.

Negli Stati Uniti questo fenomeno è oggetto di studi e riflessioni da tempo. Tra le voci più ascoltate c’è quella di Jennifer Breheny Wallace, giornalista e autrice che ha raccontato a lungo le distorsioni della cultura della performance, soprattutto nei contesti familiari più competitivi. Nel suo lavoro emergono storie di giovani che crescono monitorando costantemente voti, classifiche, obiettivi, come se ogni risultato fosse una conferma, o una smentita, del diritto a essere apprezzati. Ragazzi che arrivano a chiedersi se l’amore dei genitori dipenda dalla loro capacità di eccellere.

Wallace descrive una cultura del successo che promette sicurezza e futuro, ma che spesso produce l’effetto opposto. Accanto ai buoni risultati scolastici, aumentano infatti i livelli di perfezionismo, ansia e fragilità emotiva. Non è l’impegno a essere messo in discussione, ma l’idea che si debba “ottenere” qualcosa per “valere” come persone.

Da questa consapevolezza nasce il lavoro del Mattering Institute, l’organizzazione fondata da Wallace per promuovere il concetto di mattering, cioè la percezione di contare per qualcuno. Sentirsi importanti, necessari, riconosciuti non per ciò che si raggiunge, ma per ciò che si è e per il contributo che si offre. Un’esperienza che, secondo numerose ricerche citate dall’autrice, è decisiva per lo sviluppo dell’autostima e della motivazione, soprattutto durante l’adolescenza.

Il cambio di prospettiva proposto è netto. Al posto della domanda «come sto andando?» subentra «dove posso essere utile?». È il passaggio dall’io al noi, da un’identità costruita sul confronto a una fondata sulla relazione. Quando un ragazzo scopre di poter avere un ruolo, anche piccolo, nella vita degli altri, costruisce una sicurezza più stabile, meno dipendente dal giudizio esterno.

Wallace racconta episodi semplici ma emblematici. Come quello di due bambini che aiutano una vicina anziana a rastrellare le foglie davanti casa. Un gesto minimo, senza voti né ricompense, che però lascia il segno. I bambini tornano a casa entusiasti, continuano a parlarne, colpiti dalla sensazione di essere stati utili, necessari. È in questi momenti che prende forma un’idea diversa di valore personale.

Anche nella quotidianità familiare questo approccio può tradursi in scelte concrete. Alcuni genitori, invece di concentrare ogni conversazione su compiti e verifiche, coinvolgono i figli nella gestione della casa, assegnando responsabilità stabili e visibili. Non come favori occasionali, ma come parti integranti della vita comune. La percezione di contribuire rafforza il senso di appartenenza e aiuta i ragazzi a sentirsi parte di una rete che si fida di loro.

Il ruolo degli adulti resta centrale. Non basta dare il buon esempio, serve anche spiegare ciò che si fa. Raccontare perché si aiuta un vicino in difficoltà, perché si dedica tempo a qualcuno che sta attraversando un momento fragile. Rendere esplicite le motivazioni trasmette ai più piccoli una grammatica della cura, un linguaggio emotivo che potranno interiorizzare e replicare.

In un’epoca che tende a ridurre gli adolescenti a voti e performance, questa prospettiva offre una forma di protezione. Insegnare ai ragazzi che il loro valore non è racchiuso in una pagella significa liberarli dal peso di dover dimostrare continuamente qualcosa. Non per rinunciare all’ambizione o al desiderio di migliorarsi, ma per rimettere ogni risultato al suo posto.

Il messaggio di Wallace è chiaro e può diventare un buon proposito per il 2026. Nessun voto, nessuna carriera, nessun titolo può sostituire il bisogno umano fondamentale di sentirsi importanti per qualcuno. Quando questo bisogno è soddisfatto, anche il successo, se arriverà, sarà una possibilità e non un obbligo. Una conseguenza, non una condizione per sentirsi degni di valore.

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