di Enzo Beretta 

Alma Shalabayeva, «soggetto di cui si poteva e si doveva disporre il trattenimento e l’espulsione», fu «clamorosamente arbitro del proprio destino perché soltanto decidendo di esibire uno dei documenti validi di cui era titolare e che invece rimase nelle sue tasche (o in quelli dei suoi difensori) avrebbe subito bloccato qualsivoglia piano malevolo che oggi pretende di descrivere come ordito ai suoi danni su scala internazionale». Secondo i giudici della Corte d’appello di Perugia che hanno assolto da ogni accusa tutti i poliziotti imputati, tra cui Renato Cortese e Maurizio Improta, finiti sotto inchiesta e condannati in primo grado a cinque anni per quell’espulsione avvenuta nel maggio 2013, «non c’è il minimo dubbio sull’invalidità del passaporto centroafricano, al di là delle attestazioni di questa o quella autorità consolare, essendo forse stato effettivamente rilasciato ma poi risultando vistosamente alterato con tanto di pagine strappate e sostituite, recanti caratteri diversi da quelli originali». 

Il passaporto falso «È bene avvertire – puntualizza il collegio – che l’avvocato Federico Olivo non presentò affatto la propria cliente con il nome di Alma Shalabayeva, indicandola invece solo come Alma Ayan e senza neppure segnalare la possibilità che esistesse un alias. Insomma, la persona offesa si presentò come Alma Ayan ai poliziotti che eseguirono la prima perquisizione, esibendo il famoso passaporto con quelle generalità; ripeté fino alla noia ‘I am Alma Ayan’ al Borgioni, allo Sportoloni, alla Pozzuoli e alla Scipioni, senza null’altro aggiungere se non di essere una cittadina centrafricana e nel contempo un diplomatico del Burundi. Dichiarò di chiamarsi Alma Ayan al momento della compilazione dei documenti di ingresso al Cie e quando venne redatto il verbale dell’udienza di convalida del trattenimento, rispondendo alle domande della dottoressa Lavore. Uno dei suoi avvocati – è la sentenza d’appello – confermò quel nome e quel cognome redigendo una richiesta scritta nel suo interesse, indirizzata al pm procedente. Richiesta che: 1) in quel momento doveva valere a scongiurare la più che concreta prospettiva che ella tornasse in Kazakhstan, divenuta attuale dopo che la tesi difensiva della validità del presunto passaporto diplomatico centrafricano era stata di fatto sconfessata o comunque ritenuta infondata dal giudice di pace; 2) fu avanzata da un avvocato cui, a quanto pare, era stato materialmente consegnato e forse aveva addirittura al seguito, in quello stesso frangente, gli autentici e validi documenti della sua cliente, che però non esibi né menzionò».

Per dirla con Improta: ma che gliene fregava? «Emblematico – viene definito nelle motivazioni – lo sfogo di Improta nel rendere dichiarazioni al pm di Roma il 15 maggio 2014 quando ancora non era sottoposto a indagini. Pur avanzando qualche perplessità sul fatto che una stessa persona potesse risultare titolare di più permessi di soggiorno rilasciati da Paesi diversi, egli disse: ‘Va bene tutto, ma ditemelo.. venite, perché insisti a dirmi che sei diplomatica ? Se ti sei nascosta qui perché hai necessità di nasconderti e di essere protetta, ma dillo, c’era tutto il tempo, abbiamo risolto problemi in un nanosecondo con le associazioni cattoliche, gli studi legali, di tutto, ma perché non avremmo dovuto farlo con questa? Ma che cosa me ne fregava a me, dottò? Ma, mi perdoni, che cosa mi interessava? Assolutamente niente, nulla’. Uno sfogo – scrive la Corte – tanto estemporaneo quanto cristallino: perché un conto è immaginare una Shalabayeva incerta e timorosa nel relazionarsi con forze di polizia che pensava fin troppo solidali con gli interessi kazaki, tanto da astenersi dal parlare apertamente dei permessi di soggiorno che ne avrebbero impedito l’espulsione coattiva ma nel contempo disvelato la vera identità; ben altra cosa è rilevare, si ribadisce, che di quei permessi ella ha sostenuto di avere realmente segnalato l’esistenza, ed è questo a risultare palesemente non credibile. Per dirla con Improta, ma che gliene fregava, a lui e a tutti i suoi sottoposti, di ignorare ciò che la Shalabayeva andava raccontando, se è vero che lo raccontò?»

Cortese e il sequestro che poteva essere impedito Il focus si sposta su Cortese, «il boss dei sequestratori» cui si rivolse «uno dei legali dello studio cui la vittima del reato oggi contestato» aveva chiesto «assistenza tecnica» quando ancora «il piano non si era realizzato» e la Shalabayeva non era fisicamente salita sull’aereo che l’avrebbe riaccompagnata in Kazakhstan. «Sarebbe stato sempre lui, con un piano criminale ormai perfettamente riuscito, a fornire ai legali della presunta vittima gli strumenti per cercare di impedire la definitiva consumazione del sequestro di persona. Tutto ciò – scrivono i giudici senza troppi giri di parole – non sta in piedi» ed «è inverosimile che una chance concreta di attivarsi affinché all’espulsione non si desse corso le venne offerta proprio dal soggetto che tanto si era industriato per realizzare il presunto proposito delittuoso. Ma come – si chiedono i magistrati -? Cortese, al netto delle mai emerse motivazioni che lo avrebbero dovuto determinare a rendersi schiavo degli interessi del governo kazako e concorrere alla ‘deportazione’ della donna, aveva deciso di accantonare giuramenti, mettersi la Costituzione sotto la suola della scarpe, firmare informative ideologicamente false e chi più ne ha ne metta. E chi glielo faceva fare, ormai sulla soglia della riuscita del piano, di rivelare a un avvocato della vittima particolari – il volo già pronto, il nome del sostituto procuratore – che sarebbero stati determinanti per chi era ancora in grado di impedire quel rimpatrio?». Di norma, riprendendo le parole degli avvocati Franco Coppi ed Ester Molinaro – «l’autore di un sequestro di persona non comunica tempestivamente proprio all’avvocato della sua vittima informazioni ‘preziosissime’ che le permetterebbeo di far saltare l’intero piano». 

«Ammesso che il pericolo esistesse davvero» Conclude la motivazione: «Le notizie fornite alla difesa furono talmente importanti che ne derivò la sospensione di un nulla osta già concesso: che poi i difensori della Shalabayeva preferirono, a dispetto dei presunti, gravissimi rischi che ella avrebbe corso rientrando in Kazakhstan, evitare di aggravarne la posizione di indagata in Italia (dove avrebbe affrontato un processo in stato di libertà per un reato ben passibile di condanna con pena sospesa), è ben altra questione. Difendendosi dall’accusa di aver posseduto un documento d’identificazione falso, ma restando convinta che non lo fosse, ella avrebbe financo potuto insistere nel rappresentare che quello di Alma Ayan era un nome che sapeva esserle stato dato per ragioni di sicurezza, invocare a sua difesa difetto di dolo e scriminanti: insomma, era un processo ove (domani) vi sarebbero state molte carte da giocare, il cui eventuale esito negativo non sarebbe stato di particolare pregiudizio. Invece il passaporto autentico e il permesso di soggiorno lettone, ove finalmente qualcuno si fosse degnato di esibirli, avrebbero pacificamente impedito (quello stesso giorno) il ritorno immediato della donna nel Paese di origine, salvandola da qualunque pericolo di sottoposizione a trattamenti persecutori o addirittura inumani. Ammesso, anche qui, che detto pericolo esistesse davvero». Perché «è necessario chiedersi «se davvero il Kazakhstan avesse in quel periodo fama di Paese governato da un regime dittatoriale che aveva in odio e perseguitava qualsiasi oppositore. Si è realmente certi che, ove quella fosse stata la situazione politica kazaka, gli imputati lo sapessero o lo dovessero sapere, perché – ovunque se ne fossero cercate notizie – ne sarebbe venuto fuori un quadro di torturatori e di aguzzini?».