di Enzo Beretta
Un rapimento di Stato eterodiretto da funzionari del Kazakhstan oppure ordinari atti amministrativi per cercare di catturare un latitante? «Alma Shalabayeva che disse di avere nazionalità centroafricana ma emerse essere kazaka – scrivono i giudici d’appello nelle motivazioni che hanno assolto cinque poliziotti dall’accusa di sequestro di persona – era regolare in Italia sulla base dei dati disponibili valutati dagli imputati? La risposta è no. L’utilizzo di un passaporto falso, con il conseguente e legittimo trattenimento presso un Cie ne impose l’espulsione, a quel punto da eseguire mediante rimpatrio in Kazakhstan». L’espulsione della donna e il ritorno nel Paese d’origine «corrispondeva a ciò che l’ambasciata di Astana desiderava avvenisse ma era in primis (e senza forse) quel che si sarebbe dovuto fare secondo la legge italiana».

Romanzo kafkiano La Corte d’appello di Perugia confuta le tesi dell’accusa e delle parti civili: «Il fil rouge di quella sequenza sarebbe da individuare nella strumentalità al disegno di creare uno stato di sostanziale detenzione e di isolamento della donna, privandola così della libertà di movimento e di determinazione fino a concretizzare, almeno per la gran parte degli imputati, il delitto di sequestro di persona, un comune filo rosso che secondo il tribunale, gli stessi avvocati della Shalabayeva avrebbero percepito per essere stato eretto un vero e proprio muro attorno alla loro assistita, a mo’ di romanzo kafkiano. L’assunto è suggestivo – chiosano i giudici – ma fuori dei romanzi ed entrando in un processo penale necessità di prove. Perché tutti, fingendosi quasi ingenui come argomentato dallo stesso rappresentante della pubblica accusa, si resero servi sciocchi dei kazaki? Perché Cortese, Improta o qualche loro sottordinato (ma anche qualcuno sopra e neanche troppo rimasto nell’ombra, stando alle argomentazioni del tribunale) avrebbero dovuto fare carta straccia del giuramento alla Costituzione e stendere un tappeto rosso dinanzi alle pretese, illegittime o addirittura illecite, dei diplomatici di un Paese che – sia detto con il dovuto rispetto – non era di certo una super-potenza sul piano degli equilibri politici internazionali? Il quadro si complica nel rilevare come un’eventuale adesione alla ricostruzione accusatoria faccia immediatamente comprendere che sul banco degli imputati sembra mancare qualcuno».
Il livello superiore Chi è questo «qualcuno» lo spiega il presidente Paolo Micheli: «Il tribunale ipotizza che la messa a disposizione della Polizia di Stato rispetto ai desiderata derivò da un input che dovrebbe collocarsi a un livello molto alto: un ministro chiese al suo capo di gabinetto di ricevere l’ambasciatore kazako, la palla passa un prefetto e da lì ad altre figure di vertice, fino ad arrivare al dirigente della squadra mobile della questura di Roma. Sotto tale riguardo non ci sarebbero particolari problemi: ce la si è presa con Cortese perché non sono stati raccolti elementi di prova sufficienti per salire più su, un po’ come la casistica giudiziaria insegna quando si individui l’esecutore materiale di un delitto ma ne sfugga il mandante. Però se il mandante non fa parte del processo – si legge in sentenza – l’impianto della pronuncia di condanna dell’esecutore non può fondarsi su quell’aspetto che manca. Non si può dire qui che Cortesi agì, come si ritiene dimostrato, perché così gli dissero di fare Procaccini, Valeri o il Presidente della Repubblica. Le dichiarazioni dei primi due saranno pure non collimanti ma non sono imputati e nulla, sul loro conto, può darsi o presumersi accertato». E tutto ciò «non vuol dire affatto che Procaccini sarebbe stato pronto ad avallare qualunque illegalità pur di compiacere i kazaki né che Valeri o altri, raggiunti da quelle telefonate, scattarono sull’attenti».
La carriera di Cortese I giudici provano a spiegare le ragioni del comportamento di Cortese, l’uomo che catturò i superboss mafiosi Giovanni Brusca e Bernardo Provenzano: «È escluso che agì per soldi e non sta in piedi che lui e gli altri avessero interesse ad accreditarsi in qualche modo col governo kazako, neppure per motivi di vicinanza. Ma è seriamente credibile che Cortese o altri, pensando a una fiche da spendere in futuro e con l’ovvia incertezza di poterla concretamente incassare, si resero disponibili a commettere un vero e proprio campionario di nefandezze culminato in un ‘crimine di eccezionale gravità’ e determinando una ‘limitazione o compressione della nostra sovranità nazionale’? Di titoli per fare carriera – scrivono i giudici di secondo grado – ne avevano già, validi e di ben più elevata consistenza, a prescindere da eventuali avvvicendamenti ai posti di comando del Ministero degli Interni. Già, perché quella fiche, a tutto voler concedere, la si sarebbe potuta utilizzare solo con chi era al piano di sopra in quel momento, ma con prospettive di permanenza fisiologicamente incerte. Cortese sarebbe stato il presunto vertice italiano della congiura, ma è seriamente sostenibile che compiacendo i kazaki egli poté pensare di diventare meritevole di incarichi di maggior prestigio rispetto a quelli che aveva? O non è, piuttosto, ben più logico ipotizzare che divenne poi questore di Palermo per ben altre, arcinote, legittime e incontestabili ragioni?».