di Enzo Beretta

Alma Shalabayeva disse o no che in caso di rientro in Kazakhstan avrebbe rischiato la vita? Disse o no che voleva asilo o protezione internazionale? «Sul piano delle rappresentazioni e delle istanze formali certamente no». È quanto scrivono i giudici della Corte d’appello di Perugia che hanno assolto i superpoliziotti Renato Cortese e Maurizio Improta dalle accuse di sequestro di persona costate loro una condanna a cinque anni di reclusione in primo grado. Insieme a loro sono stati assolti con formula piena anche i colleghi Luca Armeni, Francesco Stampacchia, Vincenzo Tramma e Stefano Leoni. 

DEPOSITATE LE MOTIVAZIONI: NESSUN SEQUESTRO

«Alma Ayan, diplomatica centraficana» Alma Shalabayeva disse o no che aveva un passaporto kazako valido e due permessi di soggiorno? «Di quel permesso nessuno sapeva niente tranne la Shalabayeva e i suoi difensori – si legge nelle 354 pagine di motivazioni -. La donna continuò a presentarsi come Alma Ayan e i legali vollero insistere solo sull’autenticità del passaporto centrafricano, la cui presunta falsità generò l’indagine e il provvedimento di rimpatrio». Nella lunga e articolata sentenza si legge che il pm Eugenio Albamonte, sentito nel processo d’appello, era «abbastanza sicuro» che dall’avvocato Federico Olivo «non gli venne prospettato alcunché circa possibili rischi per l’incolumità della donna qualora fosse stata espulsa»: più semplicemente «gli parlò della sua cliente indicandola come Alma Ayan, cittadina centrafricana con status di diplomatico e passaporto valido (malgrado fosse stato erroneamente ritenuto falso)». Poco anche a proposito del marito dissidente: «Aggiunse in termini generici che il marito della donna, vale a dire il presunto latitante che le forze dell’ordine non erano riuscite a rintracciare, era un oppositore del governo kazako». «Tutto qui. Non c’è neppure il cognome Shalabayeva», evidenzia il giudice estensore Paolo Micheli. 

L’ESPULSIONE? ERA CIÒ CHE ANDAVA FATTO

Il comportamento del legale L’avvocato Federico Olivo era davanti a un bivio: «Ribadire la tesi che si avesse a che fare con la titolare di un regolare passaporto diplomatico, da non espellere per non violarne le prerogative o addirittura le eventuali immunità» oppure «decidersi una buona volta a segnalare che quella persona, magari anche cittadina della Repubblica Centrafricana ma certamente kazaka perché il suo stesso difensore parlò appunto di ‘rimpatrio’, avrebbe rischiato gravi persecuzioni nel proprio Paese di origine». Olivo «scelse la prima strada, trascurando completamente la seconda».

SHALABAYEVA FU ARBITRO DEL SUO DESTINO

«Alma chiusa a riccio» Ricostruiscono i giudici parlando di un «ostinato trincerarsi della donna dietro lo schermo del passaporto centrafricano e di un inesistente status di diplomatico»: Alma Shalabayeva «dopo aver illustrato a una dozzina di poliziotti le proprie generalità e la protezione di cui necessitava» venne accompagnata al Cie dove «dichiarò di chiamarsi come risultava nel passaporto centrafricano, chiudendosi a riccio e ripetendo soltanto ‘I am Alma Ayan’». Sentita successivamente a Perugia in incidente probatorio dichiarò: «Volevo dirlo, però siccome mi avevano trattenuto ormai da quindici ore pensavo che mi avrebbero liberato a breve, poi in realtà, invece no, quindi cioè volevo dirlo in un secondo momento. No, in quel momento non l’ho detto perché pensavo mi avrebbero già liberato». Ma questa, per i giudici d’appello, viene ritenuta «tutto fuorché una spiegazione». 

«Nulla sui rischi di persecuzioni» In ogni modo, in quei giorni del maggio 2013, «pur dopo aver detto di essere Alma Shalabayeva dinanzi a parecchie persone, di quel nome continuò a non esservi traccia negli atti a sua firma»: «Nulla sul fatto che la donna si chiamasse invece o potesse chiamarsi Shalabayeva, nulla sui rischi di persecuzioni o trattamenti inumani in caso di rimpatrio». Ma, sottolinea, Micheli: «Dimostrando di disporre di un titolo di soggiorno rilasciato da un Paese di area Schengen, il rischio che la Shalabayeva fosse rimpatriata coattivamente in Kazakhstan era pari a zero».

«La Polizia non nascose proprio nulla» In questa storia – sono convinti i giudici d’appello di Perugia – ci sono «particolari che la Polizia non nascose affatto», a fronte di «un atteggiamento assai meno trasparente di chi, quei documenti validi, li aveva già in tasca». E aggiungono: «Sembra oggettivamente un fuor d’opera pensare che la Polizia di Stato italiana, apprendendo dell’esistenza di un documento che l’interessata si era ben guardata dal menzionare e che nulla autorizzava a pensare tenesse al seguito, dovesse addirittura farsi carico di andarlo a cercare». Nonostante ciò «di possibili e astrattamente decisivi ostacoli furono proprio gli imputati a fare parola con gli avvocati della Shalabayeva (Cortese, spiattellando di aerei pronti e di sostituti titolari delle indagini cui potersi rivolgere per bloccare il nulla osta all’espulsione) o con gli stessi magistrati della Procura (Improta, che inviò una nota con scritto a chiare lettere che la donna da espellere era ‘Shalabayeva Alma, alias Ayan Alma’)». 

Maurizio Improta ©Fabrizio Troccoli

«Fu Improta a dire che aveva un alias» E insistono: «Ad essere espulsa fu Alma Ayan perché quello era stato il nominativo iscritto sul Registro generale delle notizie di reato, comunque in un contesto nel quale fu Improta, non i difensori della donna, a rappresentare al pm che la donna aveva un alias. È opportuno ribadire che se alcune figure di vertice della Polizia di Stato italiana elaborarono un piano ordito insieme ad alcuni rappresentanti diplomatici del Kazakhstan logica vorrebbe che si fossero messi d’accordo anche sul modus procedendi, evitando che qualcuno (italiano o kazako che fosse) scrivesse o trasmettesse atti potenzialmente idonei a rovinarne la riuscita». 

Il volo da Ciampino E a proposito del volo «Improta non fece altro se non acconsentire all’utilizzo del mezzo più idoneo, meno costoso e più rapido». L’ex capo dell’ufficio immigrazione della questura di Roma e attuale questore di Trento pensò che «quella fosse una fortunata occasione per dimostrare un’avveduta gestione di risorse pubbliche» e se «è certo che l’ambasciata del Kazakhstan si fosse attivata» per quel rimpatrio «non è detto che l’imputato lo sapesse». Insomma, «il decreto di espulsione contenne quel che era normale contenesse – è scritto in sentenza – vale a dire i dati effettivamente conosciuti sul conto della donna tra cui il nome da lei fornito di Alma Ayan, e vi era soltanto una ragionevole, diffusa convinzione che lei fosse la moglie di Mukhtar Ablyazov, senza che però la Polizia di Stato disponesse di un suo documento valido, e dunque senza la possibilità di attestare con certezza che le generalità dovessero essere diverse».