di Lucia Caruso
Il metateatro di Franco Branciaroli, sospeso tra leggerezza e dramma, in cui ironia e amarezza si mescolano, si sovrappongono, s’inseguono, è avvolto dalla surreale atmosfera fumosa della Londra del 1942, messa in ginocchio dai nazisti, che vede nel teatro, e soprattutto in quello shakespeariano, un rifugio dalle angosce della guerra, un luogo ideale per distogliere la mente dallo scenario di sangue e di paura che sovrasta la città. E domenica 22 gennaio il Morlacchi ha applaudito l’ultimo dei cinque spettacoli di uno dei migliori attori e autori del panorama italiano.
Omaggio Con “Servo di Scena” Branciaroli vuole rendere omaggio al Teatro, quasi fosse un atto doveroso verso quello che in fondo è il suo mondo, dimostrando la sua sacra devozione nei confronti di quest’arte, che, come ogni cosa ha i suoi limiti e le sue debolezze, che solo l’amore riesce a ridurre. Il testo di Ronald Harwood, proposto per la prima volta in Italia da Lavia nel 1980, racconta proprio di questo amore senza ‘se’ e senza ‘ma’ nei confronti del teatro, attraverso la storia del tramonto di Sir Ronald, un attore che si accinge a rappresentare per la 227esima e ultima volta il “Re Lear”, tragedia di William Shakespear. Nonostante i continui bombardamenti il piccolo teatro inglese è colmo di gente che attende di vedere lo spettacolo.
La scenografia curata da Margherita Palli consente al pubblico di entrare subito nella storia. Ci si ritrova catapultati nel cuore pulsante del teatro, che è quello che in genere non si vede, in cui si muovono attori e macchinisti prima di andare in scena. E’ divisa in due piani: giù ci sono i camerini degli attori e in primo piano quello di Sir Ronald; su invece c’è il retropalco da dove ad un certo punto s’intravederanno palcoscenico e platea. Il camerino del vecchio attore, in cui si svolge gran parte dell’azione del primo atto, racconta di un teatro di provincia, un po’ malandato, dove c’è però tutto l’occorrente: il tavolo per il trucco e l’immancabile specchio con le luci tutte intorno, un posto dove appoggiare le parrucche, l’appendiabiti, un divano e un bagno. Di fronte un corridoio da cui si scorgono le porte dei camerini degli altri attori, consumate dal tempo. Nel retropalco invece ci sono la cabina di regia e la famosa macchina del vento.
La trama Sir Ronald, maschilista, egocentrico e buffonesco, magistralmente interpretato da Branciaroli, è malato, privo di forze, ha i suoi anni e porta con sè i suoi acciacchi. Tra il sali e scendi di pressione e d’umore, la memoria gli fa brutti scherzi, al punto che prima della Prima si veste da Otello, si mette a recitare Macbeth e proprio non riesce a ricordare la prima battuta: “227 volte Lear e non ricordo la prima battuta”. Si dispera, s’innervosisce. Ad assisterlo e a consolarlo Norman, il suo fedele servo di scena, interpretato da Tommaso Cardarelli. Norman ha un ruolo chiave: è il protagonista del racconto. E’ lui che si prende cura del capocomico, è lui che lo aiuta a vestirsi, a truccarsi, è lui che lo convicerà, al contrario degli altri attori della scansonata compagnia, ad andare in scena. Norman conosce bene Sir Ronald, è al suo fianco da 16 anni. Sa come prenderlo, sa come placare i suoi capricci, come stuzzicare la sua vulnerabilità, sa perfettamente le parole che Sir ama sentirsi dire. E comincia ad adularlo, a pavoneggiarlo e a fargli riflettere sul fatto che il pubblico è già in sala e attende solo lui. Ma Sir è tormentato dalla consapevolezza del tempo che è passato, che gli ha segnato il volto “Una volta le rughe dovevo dipingerle completamente, ora basta sottolineare quello che c’è” e che lo mette di fronte alla fine: “Devi dire al burattinaio di cambiare i fili”. Norman, che poi non è altro che il dresser, il suggeritore, il tutto fare, figura tipica del teatro britannico d’un tempo, pare l’unico ad avere davvero a cuore questo mondo a cui è legato da un amore profondo, ingenuo, scalpitante, ma anche nevrotico: “Qui c’è la bellezza, la primavera, l’estate. Qui dentro non si è mai soli. Ho tutto quello che mi serve qui e non ho bisogno di farlo sapere a nessuno”. Tra gli echi dei bombardamenti confondono ancora di più il vecchio capocomico e un divertente via vai dei personaggi che compongono la scansonata compagnia (tra cui la moglie di Sir Ronald, anche lei attrice, che “non ne più della puzza di naftalina e degli abiti vecchi da rammentare”, Madege, la “zitella dietro le quinte” come lei stessa si definisce, segretamente innamorata del suo capocomico, Geoffrey e Mr.Oxenby, due anziani attori, e una comparsa che si lascerà palpeggiare dal suo capocomico sperando di entrare nelle sue grazie), il vecchio Sir, che subisce il fascino del palcoscenico e insieme a questo ansie e paure (“Quando sei lassù sei solo…non ti può aiutare nessuno”), si lascia infine trascinare dal suo servo di scena nel retropalco del teatro in attesa di entrare. Comincia lo spettacolo. Risate e applausi del pubblico al di là del palco si confondono con quelli del pubblico in sala. Dopo un “vuoto di scena”, Sir finalmente sale sul palco e recita il suo Re Lear con ardente passione. Ringrazia il pubblico entusiasta aggrappato al sipario, ormai privo di forze. Morirà poco dopo. Al suo fianco fino all’ultimo suo respiro solo il fedele Norman che, scoprirà con rabbia e delusione di non essere stato neanche citato nella sua autobiografia: “Che ne sarà di me?” – è l’interrogativo che lo perseguita. Commentando la fine del suo capocomico dirà: “Come morte non è stato un granchè…molto qualunque per uno come lui…”
L’eternità La smania di eternità, che appartiene al teatro stesso e ne è simbolo, riecheggia in tutto lo spettacolo (“Per un attore la cosa più importante è essere ricordato” – dirà più volte Sir ), come fosse un’assoluzione dal tempo e dallo spazio, un’esigenza imprescindibile, a dispetto della flebile condizione esistenziale, destinata ad un epilogo tanto tragico quanto inderogabile.