Negozio di abbigliamento. Foto generica archivio U24

di Francesca Mancosu

Fino a qualche anno fa, magari una ventina, quando dicevi «vado dal cinese» potevi intendere due cose: andare a comprare una borsa in via Garibaldi o a mangiare al ristorante di ‘cucina tipica orientale’ in piazza dell’Orologio. All’epoca, di stranieri a Terni non ce n’erano molti, e quelli più conosciuti erano sicuramente loro, specie per i prezzi abbordabili delle loro merci e i sapori – a quel tempo ancora inconsueti – della loro cucina.

Il primo, nel 1949 Senza tema di smentite, possiamo dire che il loro capostipite sia ‘Francesco’ Shu, approdato in una Terni ancora devastata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, nel 1949, dopo aver vissuto fra Germania, Bologna, Firenze, Roma. A quel tempo, come racconta il nipote, suo omonimo, «vendeva cravatte in giro per la città e nei paesi limitrofi, poi nel 1951 decise di aprire una rivendita di pelletterie, in via Garibaldi». A distanza di 64 anni quel negozio è ancora là, appena 20 metri più su, ed appartiene alla stessa famiglia. «Noi – ricorda Francesco – siamo cresciuti qui dentro, e, in parte, lo stanno facendo anche i miei figli. Ma non possiamo dirci ‘cinesi’; siamo cresciuti con una zia italiana, visto che i nostri genitori erano sempre qui a lavorare, e non conosciamo una parola di mandarino. L’unico è mio fratello Paolo, che ha deciso di andare a studiarlo in Cina per 4 anni». Ed è lui ad introdurre il tema: «Non posso dire che a Terni esista una comunità cinese. Ce ne sono molti di più rispetto a qualche anno fa, ma meno rispetto ad altre città, e tanti sono andati via negli ultimi tempi. I negozi, poi, restano apparentemente gli stessi, ma cambiano gestori in continuazione».

Nessuna comunità A guardare e a chiedere in giro ciò che emerge nettamente e che differenzia i cinesi dagli altri immigrati ternani è proprio l’inesistenza di una comunità vera e propria. Non c’è un’associazione che li riunisce o li rappresenta; non c’è un centro religioso o culturale che possa fungere da punto di aggregazione; non c’è un quartiere a cui ricondurli. Le loro storie raccontano una serie di esistenze che ruotano attorno al proprio lavoro e alla propria famiglia.

I racconti «Ognuno – ci dice il proprietario di un ristorante del centro – pensa ai fatti propri, ci salutiamo per la strada ma nulla di più. La mia vita, poi, si svolge tutto il giorno del mio locale. Faccio la spesa – i cibi freschi, le verdure, le compro nei negozi qui intorno, mentre le merci cinesi invece ci arrivano da un importatore che ha un grande magazzino a Roma – e quando posso sto con i miei figli, che vanno ancora a scuola. Sono molto orgoglioso della più grande, che sta studiando Mandarino all’università». Gli fa eco la proprietaria di un bar poco distante, rilevato solo un anno fa da gestori italiani: «Prima avevamo un ristorante, ma era troppo duro da mandare avanti con dei figli piccoli. Ora lavoro dalle 6 e 30 del mattino alle 8 di sera, ma almeno dopo ho tempo per loro. Il maschio è nato a Roma e adora l’Italia; anche se ha imparato a parlare Mandarino lui vuole restare a vivere qui, mentre io appena sarò anziana tornerò nel mio paese. Comunque, ora ci troviamo bene. All’inizio i clienti ci guardavamo con sospetto e ci chiedevamo se il nostro caffé era ‘cinese’, ma poi hanno capito che ci interessa solo offrire dei buoni prodotti e si stanno abituando a noi».

Ostili all’integrazione? Se, da un lato, ci sono diversi cinesi che lasciano i loro figli con tate italiane proprio per far sì che impararino meglio la lingua e aiutarli ad ‘integrarsi’, tanti sembrano voler evitare qualsiasi contatto e limitarsi a pochi termini essenziali, per lo più inerenti la propria attività commerciale. Il sospetto è che dietro alla frase d’ordinanza: «No parlo italiano, no capisce», brandita da alcuni gestori di negozi di abbigliamento e casalinghi e da un diffidente parrucchiere – accompagnato da un «taglio, piega? 10 euro!», si nasconda solo tanta diffidenza e la voglia di continuare a fare solo la ‘propria’ vita. Senza dover per forza diventare parte integrante – e integrata – di questo benedetto meltin’ pot.

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