di Maurizio Troccoli
In Umbria il tema del fine vita non è rimasto confinato ai tribunali o ai palazzi della politica. È entrato nelle case, nel dibattito pubblico e nella coscienza collettiva anche grazie alla battaglia condotta dall’associazione Luca Coscioni e da Laura Santi, giornalista e attivista perugina affetta da una grave malattia neurologica degenerativa, che per anni ha chiesto allo Stato il riconoscimento del diritto a decidere come e quando morire in condizioni di sofferenza irreversibile. Nel 2025, dopo un lungo percorso di verifiche e autorizzazioni, Santi ha esercitato quel diritto, procurandosi la morte con assistenza medica, in base ai criteri fissati dalla Corte costituzionale.
È dentro questo contesto che va letta la sentenza 204 del 2025 della Corte costituzionale, che ha esaminato la legge approvata dalla Regione Toscana sul suicidio medicalmente assistito. Una decisione che non riguarda solo quella regione, ma che ha un impatto diretto anche sul percorso avviato in Umbria e sulle iniziative portate avanti dall’associazione Luca Coscioni.
Il punto di partenza resta una premessa fondamentale, spesso poco chiara nel dibattito pubblico: in Italia il ‘fine vita’ non è stato “legalizzato” da una legge del Parlamento, ma è stato reso non punibile in casi molto circoscritti da una sentenza della Corte costituzionale, la n. 242 del 2019, sul caso Cappato-Dj Fabo. La Corte ha stabilito che una persona può accedere all’aiuto medico alla morte volontaria se si trova in determinate condizioni: una patologia irreversibile, sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili, la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e la piena capacità di prendere decisioni libere e consapevoli. A queste condizioni si è aggiunta, negli anni successivi, una precisazione sulle procedure di verifica affidate al servizio sanitario pubblico.
Il problema, denunciato anche in Umbria dall’associazione Luca Coscioni e da Laura Santi, è che l’assenza di una legge nazionale ha lasciato questi diritti sulla carta, affidandone l’attuazione concreta alle singole aziende sanitarie, con tempi lunghi, incertezze e differenze territoriali. In questo vuoto normativo alcune regioni, come la Toscana, hanno provato a intervenire con proprie leggi per rendere più chiaro e rapido il percorso.
La sentenza 204 del 2025 dice due cose importanti. La prima è che una Regione può intervenire sull’organizzazione dei servizi sanitari, cioè può stabilire come devono muoversi le strutture pubbliche per esaminare le richieste, quali uffici sono competenti, quali percorsi amministrativi seguire. Questo è un passaggio rilevante anche per l’Umbria, perché conferma che le Regioni non sono del tutto immobili e che l’attuazione dei diritti riconosciuti dalla Corte non può essere bloccata dall’inerzia.
La seconda, però, è un limite netto: le regioni non possono fissare per legge i requisiti di accesso al suicidio assistito né modificarli, ampliarli o riscriverli. Quella è una competenza dello Stato, perché riguarda principi fondamentali dell’ordinamento civile e penale e diritti che devono valere allo stesso modo su tutto il territorio nazionale. In altre parole, una regione non può decidere chi ha diritto o no all’aiuto alla morte, ma solo come il sistema sanitario deve comportarsi una volta che quel diritto, nei casi previsti, è riconosciuto.
Per l’Umbria questo significa che il percorso avviato grazie alle iniziative dell’associazione Luca Coscioni e alla determinazione di Laura Santi non viene messo in discussione dalla sentenza. I casi già valutati e autorizzati restano fondati sulle pronunce della Corte costituzionale e sul ruolo del servizio sanitario pubblico. Allo stesso tempo, però, la decisione chiarisce che eventuali leggi regionali umbre sul modello toscano dovrebbero fermarsi all’organizzazione delle procedure, senza entrare nel merito dei requisiti.
Dal punto di vista politico e culturale, la sentenza rafforza uno degli argomenti centrali della battaglia portata avanti in Umbria: la responsabilità non può essere scaricata sulle singole regioni o sui tribunali. La Corte costituzionale ribadisce che il diritto, così come delineato dalla giurisprudenza, esiste, ma che spetta al Parlamento approvare una legge nazionale capace di renderlo esigibile in modo uniforme, evitando che il luogo di residenza diventi un fattore decisivo.
Il percorso di Laura Santi, conclusosi nel 2025 con una scelta personale e consapevole, resta così un punto di riferimento anche alla luce di questa sentenza. Non come un’eccezione, ma come la dimostrazione concreta di cosa accade quando un diritto riconosciuto incontra procedure lente, resistenze istituzionali e un vuoto normativo. La Corte non chiude quella strada, ma indica chiaramente che il prossimo passaggio non può che essere una legge dello Stato.
