di Giampiero Rasimelli
Gentile Direttore,
commentando i tragici avvenimenti di questi giorni in Israele e a Gaza non si può che partire da una dichiarazione di valore assoluto: l’attacco di Hamas, che ha prodotto una carneficina di civili inermi e gettato sangue sul tenue e quasi esausto filo di speranza per la pace in Medio Oriente, deve essere oggetto di una condanna senza appello. Un’aggressione proditoria senza precedenti che non può avere nessuna giustificazione e che non deve avere nessun sostegno.
Ho ascoltato la sconvolgente intervista di un giovane palestinese ad Umbria 24 pubblicata mercoledi 11 ottobre. Dice molte terribili verità il cui esito non può però essere il terrore come vendetta e come martirio. L’uccisione di civili israeliani innocenti, la decapitazione di bambini, la presa in ostaggio di persone inermi, la violenza sulle donne, nulla di tutto questo puo’ essere giustificato dai sacrosanti diritti di giustizia e libertà del popolo palestinese, dalle legittime aspettative dei cittadini e dei giovani di Gaza e della Cisgiordania. Non è come l’azione dei partigiani italiani contro l’esercito degli occupanti nazisti a via Rasella a Roma nel 1944, non è l’intifada delle pietre contro l’esercito israeliano negli anni 90, no, questo è un attacco proditorio di stampo terroristico che colpisce gli inermi.
Io sono stato tra coloro (da Presidente Nazionale dell’Arci) che il 6 aprile 1990 hanno voluto e realizzato la visita di Yasser Arafat, presidente della Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), a Perugia e ad Assisi. Gli offrimmo la possibilità di parlare in piazza IV Novembre al popolo di Perugia e al popolo Italiano come gesto rivolto a tutto l’Occidente, di visitare la tomba si San Francesco, che in piena Crociata si recò all’accampamento del feroce Saladino per portare un gesto di pace, di dialogo fraterno oltre la guerra. Quel percorso portò dopo pochi anni (93) alla pietra miliare degli accordi di Oslo che definivano la prospettiva di “Due Stati per Due Popoli” e all’assegnazione del Nobel per la pace allo stesso Arafat insieme ai leaders israeliani Shimon Peres (storico Ministro degli Esteri di Israele, poi Presidente della Repubblica) e ad Itzhak Rabin (generale dell’esercito, eroe della guerra dei 6 giorni, Primo Ministro di Israele). Quella fu una stagione piena di frutti e di speranze per israeliani e palestinesi, che però non si concretizzarono mai. Poco dopo la mano terroristica di un’estremista israeliano colpì a morte Rabin e morto per malattia anche Yasser Arafat, quel percorso è finito quasi per fermarsi sotto i colpi della guerra in Iraq e poi dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York e al Pentagono, seguito dalla lunga guerra in Afganistan. Questa paralisi è continuata in un mondo sempre più destabilizzato, dalla minaccia nucleare iraniana, dall’ISIS, dalla guerra civile in Siria, dalla penetrazione terroristica e dalla catena di guerre, genocidi e colpi di stato nell’ Africa subsahariana, dalla destabilizzazione del Mediterraneo, con al centro la velenosa crisi libica poi seguita dalla guerra civile, per arrivare infine alla invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa che, dopo i Balcani, ha riportato la guerra in Europa e contro l’Europa.
E’ vero, non viviamo in un mondo giusto, ma l’emancipazione e la crescita delle condizioni di vita di chi oggi ha poche speranze o nessuna, non potrà essere perseguita e realizzata con il terrore o col potere regionale e mondiale delle autocrazie. E’ prevalsa negli ultimi due decenni una spinta all’estremismo che ha fatto da brodo di cultura del terrorismo, anzi lo ha aiutato ha trovare una collocazione quasi da interlocutore politico. L’equilibrio mondiale multipolare cui tendere oggettivamente, dopo la caduta del mondo della guerra fredda e della contrapposizione tra i blocchi e dopo l’avvento della globalizzazione, non può trasformarsi in una scena internazionale caratterizzata dalla lotta di tutti contro tutti, potenze regionali, potenze globali, nuovi feudatari, poteri economici senza scrupoli, poteri criminali. Questo crea e legittima il terrorismo, il prevalere della regola dell’occhio per occhio e dente per dente contro ogni possibile diritto internazionale, contro ogni progetto di convivenza. Tutto questo farà solo il danno dei più poveri e non faciliterà lo sforzo, che solo la democrazia può compiere, per costringere i più ricchi a vedere i grandi pericoli di questo mondo in modo diverso e a rivedere e redistribuire privilegi, opportunità, consapevolezza, speranza. No, non sarà il terrorismo o la violenza fatta politica ad accogliere i “Dannati della terra” di cui parlava Frantz Fanon alla fine degli anni 60 dello scorso secolo, a migliorare le condizioni di vita dei disperati e dei poveri, a costruire un nuovo e più largo equilibrio mondiale.
Vorrei dire questo al giovane palestinese intervistato da Umbria24!
E bisogna avere il coraggio di dire che l’estremismo islamico è stato un forte veicolo di questo decadimento e di questi pericoli per la convivenza mondiale. Il mondo islamico non è il nemico, ma deve conquistare la sua laicità, quella di cui fu vessillifera proprio la cultura palestinese prima che si sfibrasse la speranza nata ad Oslo. E’ vero, a Gaza oggi Hamas ha un profondo consenso e probabilmente questo è cresciuto nell’intero mondo palestinese. Ma oggi questo consenso è stato irrimediabilmente tradito, come le speranze e la disperazione che lo hanno alimentato.
D’altra parte, quanto e’ accaduto testimonia che la destabilizzazione interna ad Israele perseguita dall’estremismo ebraico e dalla politica di lungo corso di Netanyahu e delle destra israeliana, indebolisce Israele, la sua forza, il suo sogno democratico, unico nell’area mediorientale, l’ immagine del sionismo nel mondo. La comunità ebraica mondiale, passata questa tragica emergenza, si renderà conto di questo fallimento, ma resta l’esigenza di un progetto che risolva dopo 80 anni la questione palestinese e che faccia diventare questa possibile soluzione un faro per dare una via d’uscita a un Medio Oriente insanguinato, a nuovi rapporti di forza fondati sulla collaborazione con un mondo arabo sempre più capace di emarginare il terrorismo. E tutto questo non potrà che fondarsi oltre che sulla realizzazione di due Stati anche su uno straordinario piano di rinascita di tutta l’area, come fu in Europa alla fine della seconda guerra mondiale, col contributo di tutta la comunità internazionale, che veda protagonisti Israele, l’Europa, gli USA, il mondo arabo alla ricerca di una sua nuova collocazione internazionale.
E’ un sogno? C’è un’alternativa? Bisogna che in Israele e in Palestina si torni presto a parlare di speranza, perché è la speranza che sconfigge il terrorismo di Hamas e ogni terrorismo. Oggi viviamo il buio del sangue, chi riattiverà la luce della speranza? Abbiamo bisogno di nuovi eroi civili e di nuova politica.
Gli Usa e l’Europa hanno tentato in questi anni di gestire la situazione, non dando forza ai propri impegni, cedendo agli interessi di parte, non capendo fino in fondo che il nodo israelo-palestinese è diventato il discrimine per tentare di creare una nuova dinamica e un nuovo scenario internazionale. Lo scenario di oggi si è complicato gravemente, ma quella priorità è sempre viva e chi saprà darle risposta darà un indirizzo importante alla scena del mondo.
In un pianeta gravato dalla crisi climatica, dalla violenza che ci circonda e ci colpisce, dall’attacco alla democrazia e dal suo indebolimento, la riattivazione della speranza è la vera forza che dobbiamo costruire e comunicare ai giovani in Palestina e in Israele come in Africa, in Europa, negli Usa e in Cina, una speranza fatta di azioni e di grandi progetti e della lotta continua al terrorismo, alla sopraffazione, all’ingiustizia.
Anche il grande sentimento e movimento pacifista che è una ricchezza del nostro paese come di tanta parte d’Europa deve confrontarsi con questa esigenza cruciale di nuova progettualità e di nuove discriminanti, per dare un contributo al mondo che viviamo, molto cambiato e più pericoloso degli anni 80 e 90, per aiutare a leggerlo, per dargli più forza nella lotta contro la violenza.
La tradizione del pensiero di pace in Umbria impone anche a noi un salto di qualità e comprensione, di essere in grado di riconquistare una capacità di elaborazione, di dialogo, di partecipazione e un’azione istituzionale che si è quasi completamente dispersa.