di Maria Giulia Pensosi
«C’è una disperata ricerca di speranza e di sollievo dal malessere che pervade questi tempi, un malessere soprattutto giovanile in questo caso, la mancanza di prospettive, la sensazione che il mondo ci stia crollando addosso tra Covid, crisi economiche e guerre. Però la storia è ambientata nel 1994, all’epoca io avevo 33 anni e non avevo questa sensazione che ho così forte adesso». Questa è la risposta di Francesco Bruni alla domanda ‘che cosa significa secondo lei Tutto chiede salvezza?’. Il regista della serie sabato pomeriggio ha ricevuto a Terni il premio San Valentino 2023 dell’Istess sezione ‘Cinema’ per ‘Tutto chiede salvezza‘. La serie è tratta dal romanzo di Daniele Mencarelli, produzione Picomedia con la regia di Francesco Bruni, la sceneggiatura di Francesco Bruni, Francesco Cenni, Daniela Gambaro e lo stesso Mencarelli. ‘Tutto chiede salvezza’ si addentra nel tema della salute mentale, Daniele (interpretato da Federico Cesari) si risveglia in un ospedale psichiatrico sotto regime di Tso senza ricordare come ci sia finito. Le puntate sono sette, chiamate come i giorni della settimana. Ma basta ‘spoiler’, la serie è disponibile su Netflix da ottobre 2022. Ecco l’intervista di Umbria24 al regista Francesco Bruni.
Secondo lei quindi c’è una differenza tra i giovani di ‘prima’ e i giovani di oggi? Da cosa è dovuta? «Dal fatto che credo che questa sia la prima generazione che ha la sensazione di andare a stare peggio dei suoi genitori – dal dopoguerra ad adesso – che lo sforzo per studiare e qualificarsi non venga premiato, quindi la sensazione di frustrazione, di un futuro negato».
La serie affronta il tema della salute mentale, il protagonista è un ragazzo ventenne. Crede che le puntate possano aver spinto magari qualche giovane che soffre e non ha il coraggio di chiedere aiuto a farsi supportare? «Io ci spero, ovviamente non faccio cinema per indicare nessuna strada a nessuno, lo faccio per raccontare delle storie sperando che siano appassionanti e che la gente ci si possa riconoscere. La sensazione che ho avuto subito è che ci sia stato un riconoscimento molto forte da parte dei giovani che, come le dicevo, stanno attraversando un periodo molto poco felice e magari qualcuno di loro può avere trovato un conforto. Credo che anche i genitori, visto il successo che la serie ha avuto, l’hanno trovata una specie di vademecum di comprensione del malessere, magari silenzioso, che può attraversare i loro figli».
Perché ha scelto di curare la regia di questa serie e cosa le è rimasto più impresso del libro di Daniele Mencarelli? «A pagina 30 ero già innamorato perdutamente del libro di Mencarelli, ho cercato l’autore, ho scoperto che i diritti erano di Picomedia, ho chiamato Roberto Sessa e mi sono proposto. Mi ha colpito perché in un certo modo è una specie di punto di arrivo di un percorso che avevo già intrapreso come regista in almeno due film precedenti, uno è Scialla! e l’altro è Tutto quello che vuoi. Diciamo che è l’esito drammatico di questo percorso quindi me lo sentivo in qualche modo vicino. Del libro mi è rimasta impressa l’urgenza, il significato profondo, l’anima di questo libro più che il potenziale spettacolare che anzi non è che un produttore fa i salti di gioia all’idea di una serie ambientata in un reparto psichiatrico per cui non ci ho visto l’occasione commerciale, ma l’occasione umana».
C’è qualche differenza tra il libro e la serie? «Sì, la scansione in sette giorni c’è anche nel libro. Il cambiamento principale sono lo spostamento all’oggi con tutto ciò che ne consegue specialmente dal punto di vista della comunicazione, chi viene internato in un Tso oggi viene deprivato di tutti quelli che sono i mezzi di comunicazione di cui siamo abituati a fare uso. Questo ha portato con sé l’inserimento di un personaggio che nel romanzo non c’è che è quello femminile di Nina che è proprio l’esempio di quanto la rappresentazione social di sé può essere fuorviante e addirittura dannosa per una persona perché è una ragazza che deve vivere all’altezza di un’immagine che non si sente sua».
È stato difficile coniugare i vari temi trattati nella serie, della salute mentale all’omosessualità per esempio? «Il tema della salute mentale era nel romanzo, potrebbe essere stato difficile, ma non lo è stato, convincere i committenti a trattarlo, produrlo e distribuirlo. C’è un personaggio nel libro che soffre per non essere stato capace di vivere serenamente l’omosessualità, quello è stata una scelta che abbiamo fatto prima di tutto perché ho trovato un attore straordinario che è Vincenzo Crea e poi perché pensavano che anche questo tema potesse essere interessante per le giovani generazioni, cioè il vivere apertamente la propria sessualità».
Quali erano le sue aspettative per le risposte del pubblico? È stato deluso o soddisfatto? «Ero preoccupato che ci fosse un rifiuto per paura di questa serie, invece così non è stato. Diciamo che non è partita fortissimo però poi ha avuto una tenuta molto sorprendente in ‘Top10’. Continuano ad arrivare riscontri anche dall’esterno, alla fine ha trovato il suo pubblico con grande soddisfazione».
La storia d’amore tra Daniele e Nina simboleggia in un certo senso una rinascita per i due ragazzi? «Si presenta come una storia tutt’altro che risolta, due ragazzi così giovani di fronte all’esperienza della maternità/paternità se ci sarà una seconda stagione non credo che saranno ‘rose e fiori’ visto che non sono due persone equilibrate. Quella scena per me non è risolutiva, sono due persone sospese nel vuoto di fronte ad una scelta più grande di loro».
È stato contento di ricevere il premio per il Cinema dall’Istess? «Mi fa molto piacere vedere che la serie ha incontrato un pubblico che purtroppo per la sale non c’è più. Mi capita di andare in qualsiasi posto e tutti la hanno vista. Questa mi preoccupa per il futuro della sala perché io vengo da lì e lì vorrei tornare per cui spero che la sala si riprenda presto, passato il periodo della pandemia, e ritorni ad essere un luogo dove fruire del cinema perché la qualità di una visione al cinema non ha paragoni».