di Ester Pascolini
Si può mettere in discussione una leggenda? La domanda non è banale e l’idea potrebbe aver sfiorato parecchi dei presenti al concerto di Bob Dylan nella serata di apertura di Umbria Jazz, almeno a vedere le molte facce dubbiose e annoiate di un pubblico quasi immobile durante tutto il concerto. La risposta al quesito però sembrerebbe un secco “no”, considerate le parole, perlopiù benevole, uscite sulla stampa regionale di ieri. Solo qualche tiepida critica, passata quasi inosservata, scritta da qualche timido temerario (se ci è concesso l’ossimoro).
In molti, lo scorso marzo, all’annuncio della presenza di Dylan a Perugia, avevano pensato a una bufala. Invece venerdì scorso, in una fresca serata perugina, il cantante è approdato davvero sul palco del Santa Giuliana. L’atmosfera, prima del concerto, era frizzante e leggera, nonostante le misure di sicurezza, degne dei grandi eventi, e le regole rigide che non permettevano, ad esempio, l’utilizzo del telefono cellulare, prontamente sistemato in un sacchetto sigillato dagli operatori all’ingresso e la proiezione delle immagini sui maxi schermi presenti nell’arena. Il parterre era ricchissimo di ospiti illustri, dalla Presidente, Donatella Tesei, al Rettore, Maurizio Oliviero, e di gente comune, tutti con un unico obiettivo: vedere da vicino la leggenda americana, protagonista di un appuntamento che a lungo si ricorderà, per motivi di varia natura, negli annali del festival.
Poco prima delle dieci, sullo sfondo di un palco totalmente rosso e soffusamente illuminato, Dylan è apparso all’improvviso, dietro al suo pianoforte, in una posizione un po’ defilata e protetta dagli sguardi del pubblico. Insieme a lui cinque strumentisti eccezionalmente bravi. Già da giorni circolava la notizia che si sarebbe limitato a suonare soltanto le canzoni dell’ultimo album, “Rough and Rowdy ways” uscito nel 2020, ma i più romantici, forti anche del “legame speciale” con Perugia, illusoriamente attribuito ad un viaggio del cantante compiuto nei primi anni sessanta, quando raggiunse la sua fidanzata Suze Ruotolo nella città umbra, speravano di potersi lanciare sulle note di alcuni dei suoi grandi classici. Invece nulla. Del resto già in un’intervista del 1975, contenuta nel documentario a lui dedicato dal regista Martin Scorzese nel 2019, “Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story”, sollecitato da un giornalista che gli chiedeva perché ai suoi concerti cantasse solo le canzoni dell’ultimo album, deludendo in qualche modo le aspettative dei fans, Dylan rispondeva cristallino: “We can’t account for everyboby who’s walking around, you know? Like having expectations. I mean, who gives a s…t?”. Detta in soldoni: chi se ne frega delle aspettative degli altri?
In ogni caso, a 82 anni suonati, la sua voce e il suo stile restano intatti: il tono roco inconfondibile e l’inglese strascicato, di ardua comprensione perfino per un madrelingua, mescolati alla maestria nell’ esecuzione strumentale, regalano un’adesione praticamente perfetta con il mito dylaniano cristallizzato nella memoria collettiva dagli anni sessanta ad oggi. Persino il suo look, svelato solo a fine concerto, quando si mostrerà per un brevissimo tratto al pubblico presente, corrisponde esattamente a un’immagine sedimentata nell’immaginario di ognuno, culminante nel pantalone a zampa di impronta sessantottina.
Non c’è alcun effetto sorpresa, accade, in fondo, solo quello che ci si poteva aspettare da lui, personaggio poco socievole, universalmente noto, oltre che per la sua musica, per i suoi comportamenti stralunati, uno su tutti il rifiuto di presenziare alla cerimonia di consegna del premio Nobel, ritirato solo molti mesi dopo l’assegnazione.
Il punto su cui riflettere non è la musica, ineccepibile e bellissima, perfetta diremmo, ma la forma che Dylan dà al suo concerto, che dovrebbe essere, perché così siamo abituati, un atto condiviso. L’esecuzione dal vivo, di fronte al pubblico, è l’abbattimento della barriera tra l’artista e i suoi ascoltatori, è il momento in cui si annulla la distanza. Italo Calvino scrive, in “Se una notte d’inverno un viaggiatore”: ” La lettura è un atto necessariamente individuale, molto più dello scrivere”. Questo vale, in parte, anche per la musica. L’ascolto è un atto individuale che può diventare collettivo. L’ascoltatore associa la musica ai momenti della sua vita e mentre lo fa compie un viaggio nell’anima, legando una canzone a uno stato d’animo o andando a ritroso nel tempo: a quella volta in cui cantava convinto “Blowin in the wind” durante l’occupazione del liceo, o a quello in cui cercava di conquistare una ragazza strimpellando “Knockin’ on heaven’s door”. Pezzi di vita, sentita e vissuta. Ma chi fa musica, così come chi scrive, necessita di un pubblico, a meno che non coltivi un sogno che resti chiuso nella sua cameretta di ragazzo (e non è certo il nostro caso). E se poi quel qualcuno che ascolta impara ad amarti e ti fa entrare nella sua vita e ti permette, soprattutto, di diventare ricco e famoso, la mancanza di generosità nei suoi confronti, negandogli le canzoni più amate, è difficile da accettare. È un’interruzione brusca del rapporto immaginario, ma reale, tra l’individuo e il suo mito, una sorta di tradimento. Questo è il grande atto mancato del concerto di Bob Dylan, a cui poco importa delle aspettative del suo pubblico. Che inutilmente si è alzato in massa, a fine spettacolo, nella speranza di un bis o di ricevere un briciolo di empatia dal suo beniamino. Quello stesso pubblico il cui desiderio, oltre a quello di ascoltare buona musica, era quello di tuffarsi nei dolci, o meno dolci, ricordi della sua vita, del suo passato, della sua gioventù. E di sublimarli, al costo nemmeno tanto modico del biglietto, cantando a squarciagola come l’adolescente che era. C’è un detto spagnolo, mutuato da una canzone di Caetano Veloso, che rende perfettamente l’idea di quale dovrebbe essere l’atteggiamento di prudenza rispetto agli uomini, e ancor di più rispetto ai propri miti: “De cerca nadie es normal”, da vicino nessuno è normale. Ecco, il rischio delusione per l’uomo che si cela dietro all’artista è sempre altissimo, anche se non è una regola. Si può mettere in discussione un mito? Forse no! Ma restarne a distanza di sicurezza invece è possibile, soprattutto quando ci sono delle avvisaglie, come nel caso di Dylan, una sorta di figura fantasmagorica, svanita insieme alle luci spente di botto a fine concerto sul palco di Umbria Jazz.