Polizia in azione. Foto Fabrizio Troccoli

di Enzo Beretta

L’operazione Kill shop della squadra mobile di Perugia è «una delle tranche più importanti delle numerose indagini antidroga svolte nel capoluogo nell’ultimo decennio». E’ scritto nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip Lidia Brutti contro 14 persone (più tre obblighi di dimora, nove finora i provvedimenti eseguiti): nel provvedimento viene ricostruito il «vasto traffico di droghe pesanti che da ambiti nazionali e internazionali hanno come destinazione Perugia, città ormai da tempo caratterizzata da una forte presenza di spacciatori maghrebini che hanno monopolizzato la diffusione al dettaglio di eroina e cocaina». Secondo un «consolidato canovaccio» questo «importante e florido canale di rifornimento vede la sinergica collaborazione tra tunisini a Perugia, capaci di catalizzare le richieste di innumerevoli assuntori e clienti fidelizzati, e connazionali di stanza a Napoli in grado di rifornire gli stessi con i quantitativi desiderati in base alle capacità di distribuzione». Una specie di Amazon della droga in cui «i punti di riferimento che vincono la concorrenza ricorrono ad una sorta di patto di mutuo soccorso criminale in base al quale vengono messi in comune il denaro per l’acquisto degli stupefacenti e i fornitori».

FOTOGALLERY: L’OPERAZIONE KILL-SHOP DELLA POLIZIA

Il «sorcio» dell’eroina e lo «zio del Belgio» I punti nevralgici dello spaccio erano essenzialmente tre: la stazione di Fontivegge, piazza del Bacio, e l’area verde di via del Macello, ma anche Monteluce, Ponte San Giovanni, via Cortonese e via della Pescara. Tra le 14 persone per cui è stato ordinato l’arresto ci sono tunisini, nigeriani, cittadini di nazionalità somala, liberiana, afgana, palestinese e marocchina. Nell’elenco c’è soltanto un italiano, Luca Visciola, 47enne di Orvieto, che si è rivelato un «attivo procacciatore di discreti quantitativi di droga trasportati personalmente dalla Campania (luogo di approvvigionamento da grossisti nigeriani) a Perugia, per la successiva vendita a pusher maghrebini e italiani». Visciola – è spiegato nelle 344 pagine – si avvaleva della collaborazione di un’«assaggiatrice», una giovane tossicodipendente di eroina alla quale il giudice ha imposto l’obbligo di dimora: il «sorcio» fungeva anche da «mediatrice» con gli acquirenti nordafricani. E se il canale di approvvigionamento di eroina ha consentito alla polizia di aprire un nuovo «fronte d’indagine su soggetti provenienti dall’Africa subsahariana dediti allo spaccio di droghe pesanti a Perugia» l’altro importante capitolo dell’inchiesta riguarda lo stupefacente importato da Bruxelles dallo «zio del Belgio». Attraverso alcuni corrieri il 47enne tunisino, ritenuto «a capo della consorteria», faceva arrivare l’eroina in Umbria al nipote. Quando lo zio ha affrontato il viaggio, da solo, nell’estate 2014, è stato arrestato con 147 grammi di eroina nella pancia.

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Il gip Lidia Brutti: «Una miriade di pusher» L’inchiesta, iniziata nel 2014 dal pm Angela Avila e proseguita dalla collega Manuela Comodi, ha portato al sequestro di «quasi due chili di eroina e un apprezzabile quantitativo di cocaina». Come era già emerso da altre indagini coordinate dal vicequestore Marco Chiacchiera «la droga proviene da Napoli e invade Perugia, dove una miriade di pusher maghrebini provvedono alla distribuzione su piazza».

Nei telefoni intercettati il treno diventa ‘serpente’ Il linguaggio utilizzato nelle intercettazioni è «dissimulato»: «Il treno diventava il serpente, l’aereo veniva chiamato aria». Al telefono la prudenza è comunque massima e spesso gli indagati utilizzavano cabine pubbliche per scambiarsi messaggi criptici. Nelle carte dell’accusa viene ripercorso anche un viaggio da Bruxelles a Pisa, via Parigi, da parte di una donna italiana di vent’anni incinta che trasportava 80 grammi di eroina e mezz’etto di ‘neve’: quando è atterrata il marito è andata a prenderla all’aeroporto ma anziché liberarla dalla droga «per eludere i controlli della polizia»le ha fatto «trasportare lo stupefacente fino a Perugia protraendo ulteriormente i rischi per lei e per il bambino».

«Perugia non è la Capitale della droga ma neanche Disneyland» Nel corso della conferenza stampa il questore Francesco Messina ha spiegato che rispetto a qualche anno fa «le caratteristiche del mercato sono cambiate e Perugia non può più essere definita la ‘Capitale della droga’. Però Perugia non si chiama Disneyland e non avremo mai la città perfetta».