Antonio Ceccarini con la maglia del Grifo

di Mario Mariano

Quattro anni senza Antonio Ceccarini, Cecco o, a scelta, Tigre. Il ragazzo partito da Sant’Angelo in Vado, paesino della provincia di Pesaro che gli ha intitolato lo stadio dove aveva iniziato a giocare per una carriera importante per uno che non aveva particolari qualità tecniche, ma una spiccava su tutte: la tigna, come si dice in perugino. Cecco era uno preciso, scrupoloso, che ad esempio amava le ricorrenze, uno che credeva nell’amicizia e visto che di Renato Curi non era stato solo compagno non mancava mai alla messa in suo onore. Aveva una memoria di ferro e si divertiva tanto se uno condiva gli aneddoti della sua carriera con qualche sfottò. Brontolava qualcosa, ma sorrideva compiaciuto.

Cecco Non era un fuoriclasse, ma quelli che lo erano – Bettega, Boninsegna, Pulici, Graziani, con lui andavano in bianco. Da quando si è trasferito sopra le nuvole, per rinsaldare il rapporto con la città e la squadra che gli ha dato gloria imperitura, i suoi familiari, Grazia, la compagna conosciuta a 16 anni quando Silvano Ramaccioni lo volle al Città di Castello dopo averlo visto all’opera nel torneo di Pistrino, e Matteo, il figlio che in curva Nord conosco da quando aveva i pantaloni corti, sono allo stadio ogni volta che il Perugia gioca in casa. Antonio non amava i discorsi lunghi e poco anche le interviste. Sapeva solo che nei giorni che precedeva le partite con gli squadroni, non poteva sottrarsi. Fu divertente quella volta che confidò come gli riusciva di fermare Damiani, al quale letteralmente non lasciava un pallone che uno, oppure quella volta che gli toccò marcare Novellino passato al Milan. Per sdrammatizzare imitava la voce dei suoi avversari, con tanto di erre francese per Oscar Damiani, oppure usando lo slang campano-milanese di Walter Alfredo.

Chi era Mai che si sia lamentato una volta per una intervista, per una virgola fuori posto, figurarsi per un voto in pagella , una forzatura giornalistica. Aveva rispetto per il lavoro degli altri, anche se il suo parere divergeva da quello dell’ interlocutore. Non protestò neppure quando lasciò l’incarico di vice allenatore ai tempi della C2. Non se ne andò sbattendo la porta, piuttosto capì che fare l’allenatore non era il suo mestiere. Tornò subito allo stadio, ma da tifoso, anche per tutelare il suo passato. Che non ha mai enfatizzato, ma reso normale, così come ha fatto quando ha svolto bene, con compostezza assoluta, il mestiere di imprenditore. Bisbigliava appena di esserlo, senza mai gonfiare il petto. Avrebbe potuto farlo, perché aveva dimostrato grandi qualità anche in quel campo, perché i numeri gli davano ragione. Aveva messo in azioni le antiche qualità, determinazione, metodo, rigore. Qualità che ha saputo trasmettere a Matteo. I suoi maestri di vita avevano proprio visto giusto, compreso il grande Alberto Burri, di cui il Cecco era amico con la “a” maiuscola. E l’opera d’arte, ancorché improvvisata durante una cena al Castello dei sorci di Anghiari – il Carburo – che fa bella mostra di sé nello studio di casa Ceccarini, ne è una testimonianza.

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