Un momento delle prove

di Daniele Bovi

«Caravaggio per me è un personaggio modernissimo e un uomo libero, se vuoi un po’ un musicista jazz». Al teatro Morlacchi di Perugia giovedì pomeriggio sono appena finite le prove de «I Caraviaggianti», lo spettacolo che venerdì aprirà la 45esima edizione di Umbria Jazz, mentre in serata toccherà a Quincy Jones all’Arena Santa Giuliana. La pianista romana Rita Marcotulli ha scritto le musiche di questo concerto multimediale che è una co-produzione tra il festival e Tadam, mentre Karmachina si occupa del visual design. Già perché oltre alla musica saranno protagoniste alcune delle opere più famose di Caravaggio e i testi di Stefano Benni, in una fusione di note, parole e quadri del Merisi, che vengono proiettati sul fondale e su un altro spazio, composto da tre triangoli, al centro del palco. Molto spesso vengono presi singoli dettagli dei quadri, ai quali i visual designer danno vita e l’impressione è quella di un flusso sonoro compatto, dove la quasi totalità dello spazio è occupato dal collettivo più che dal singolo strumento. Sul palco con Marcotulli Mieko Miyazaki al koto (un particolare strumento a corde che viene dalla famiglia delle cetre) e voci, Israel Varela alla batteria, Tore Brunborg ai sassofoni, Michel Benita al contrabbasso, Marco Decimo al violoncello e Michele Rabbia alle percussioni.

FOTOGALLERY: LO SPETTACOLO MULTIMEDIALE AL MORLACCHI

Come nasce l’idea dello spettacolo?

«Di fatto mi tormenta da più di dieci anni, e poi me l’ha suggerita una persona che aveva fatto una mostra in cui erano stati riprodotti in modo virtuale dei quadri di Caravaggio. Dissi che era meraviglioso, e che avremmo potuto vedere i dettagli dei quadri. In questo modo l’idea di grandezza e di virtuale ha iniziato a farsi largo, e poi alla fine abbiamo avuto anche noi un angelo, nel senso che siamo riusciti a produrre il concerto con Tadam e Umbria Jazz».

La primissima impressione è quella di un flusso sonoro compatto, in grado di restituire una vasta gamma di emozioni.

«Sì, mi sono ispirata un po’ ai quadri, e ognuno di essi mi ha dato delle suggestioni, come “La fuga in Egitto”: mi sono immaginata il bambinello che dorme e nel sogno una ninna nanna; ho voluto fare qualcosa di più poetico e meno didascalico».

Ha scelto prima i quadri e poi ha composto la musica o viceversa? Come ha selezionato i quadri nel vasto catalogo di Caravaggio?

«Prima è arrivata la musica e poi abbiamo scelto le immagini. Sarebbe stato bellissimo usarne anche di più, e infatti abbiamo comprato i diritti per l’utilizzo di molti quadri, ma non potevamo fare uno spettacolo di due ore».

Chi è per lei Caravaggio?

«Un personaggio assolutamente modernissimo e un uomo libero, faccio un parallelismo coi musicisti jazz perché era uomo che amava rompere gli schemi, era libero da pregiudizi e preconcetti ma ha avuto la sfortuna di vivere nel Seicento dell’Inquisizione. C’è questa storia del Caravaggio come uomo tormentato – e certamente lo era – ma era soprattutto un uomo libero. Il nero che lui dipinge è quello che aveva intorno, mentre la luce è quello che aveva dentro, è lui, e non è un caso che spesso mette un suo ritratto nei quadri».

Come ha scelto i musicisti che l’accompagnano in questo progetto?

«Io ho un po’ una famiglia con cui collaboro spesso. L’idea del koto mi piaceva perché spesso nei quadri di Caravaggio ci sono molti strumenti a corda come il liuto. Myeko ha una grandissima forza e presenza scenica e quello strumento mi riporta a un mondo più antico. Il violoncello è invece melodico, mentre Varela è un messicano, e Caravaggio amava molto la musica spagnola. Rabbia, poi, mette tutti i colori».

Ci sono in programma altre date?

«Forse andremo in Cina a settembre e il prossimo anno a Cremona, ma intanto dobbiamo capire quali saranno le reazioni del pubblico qui a Perugia; speriamo vada tutto bene».

Come sta il jazz italiano?

«Molto bene, ci sono grandissimi musicisti e bravissimi giovani, anche più aperti rispetto a prima. C’è uno sguardo più ampio sulla musica in generale; prima c’erano un po’ quelli che io chiamo i talebani nel jazz, come negli anni Sessanta quando con questa musica si identificava soltanto lo swing o il bebop ma non è così, altrimenti sarei portata a dire che davvero il jazz è morto. Il linguaggio è quello della musica improvvisata, che però deve rappresentare la storia dei tuoi tempi».

Twitter @DanieleBovi

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