Lee Morgan

di Daniele Bovi

Diciotto febbraio 1972: un colpo di pistola sparato all’interno di un jazz club di New York, lo Slugs nell’East Village, mise fine troppo presto alla vita di uno dei musicisti più brillanti e promettenti della sua generazione, ovvero Lee Morgan, trombettista di appena 33 anni. A sparare al termine di una lite fu sua moglie, Helen Moore, la donna conosciuta anni prima che avrà un ruolo molto importante nella vita e nella carriera di Morgan. Fuori c’è una New York colpita da una violenta tempesta di neve ed è proprio questa la prima immagine proposta allo spettatore da «I called him Morgan», il film-documentario proiettato mercoledì pomeriggio alla sala dei Notari per l’edizione 2017 di Umbria Jazz. Diretto da Kasper Collin è stato proiettato nel 2016 alla Mostra del cinema di Venezia e in queste settimane dovrebbe arrivare anche una versione dvd per tutti quelli che fino a ora non hanno potuto vederlo. Per Collin si tratta della seconda prova dopo «My name is Albert Ayler», dove racconta il free jazz del trombettista americano.

Il documentario Un film documentario tra amore e jazz, una crime story, un affresco musicale del periodo e molto altro ma soprattutto una storia tragica – questo l’elemento centrale – trattata con grande delicatezza. Nel suo lavoro Collin mescola materiale video dell’epoca (specialmente concerti), fotografie e testimonianze, tra le principali delle quali c’è quella di Wayne Shorter, che per molto tempo ha suonato con Morgan ad esempio nella band di Art Blakey. Prima, Morgan era stato il ragazzino prodigio ingaggiato a 16 anni nella band di Dizzy Gillespie, dopo la quale iniziò a suonare con i Jazz Messengers e a portare avanti la sua carriera tra collaborazioni e progetti come leader. Anni di denaro, ottimi vestiti, ingaggi e donne fino alla caduta nel baratro della droga e la conseguente perdita di affidabilità e di possibilità di suonare. Morgan per pagarsi la droga vende il cappotto e anche le scarpe, tanto da arrivare a un concerto una sera in ciabatte e un giorno, in overdose, cade e batte la testa sul termosifone acceso, risvegliandosi solo quando sentirà odore di carne bruciata. Da quel momento, porterà i capelli pettinati in avanti.

Helen Moore Sulla sua strada incontra Helen Moore, due figli già a 14 anni e con un sogno nel cassetto: scappare dal profondo Sud degli Stati Uniti per vivere in una città, che poi sarà New York. Poco dopo aver messo alla luce il secondo figlio fugge senza di loro e comincia la sua nuova vita nella Grande mela tra lavoretti, un grande talento in cucina e tanti amici, molti dei quali musicisti. Uno dei figli («li hanno cresciuti i miei nonni» racconterà lei) la raggiunge quando ha già 21 anni, trovando una madre di 35 e una casa piena di persone. Un giorno, tra queste, c’è Lee Morgan nel punto più basso della sua vita e della sua carriera, senza neanche più un cappotto. Ne nasce una storia d’amore che rappresenterà per Morgan un percorso di salvezza: il trombettista grazie all’aiuto di Moore si disintossica, ricomincia a suonare e a guadagnare, a vestirsi di tutto punto e le cose filano via lisce. Una delle ossature del racconto, oltre alle testimonianze di Shorter e di altri amici-musicisti come Bennie Maupin, è la registrazione della voce di Helen Moore.

Il lungo abbraccio A inciderla il conduttore radiofonico Larry Reni Thomas, che nella vita fa anche il professore in una scuola, ruolo in cui incontra, riconoscendola, la ex moglie del trombettista . Un mese prima di morire la donna accetterà la proposta che lui le fece otto anni prima, ovvero quella di un’intervistarla. È grazie alla sua voce e a quella degli amici che viene ricostruita la vita di Morgan e Moore e il loro rapporto, entrato in crisi quando lui conobbe un’altra donna. Poi, sullo schermo torna la neve di quel 18 febbraio 1972, la lite allo Slugs dove si trovava anche la nuova fiamma di Morgan e il colpo di pistola. Dopo alcuni anni in carcere, Moore tornerà per la prima volta con i figli a casa sua, giù nel Sud, dove diventerà un’assidua frequentatrice della chiesa metodista per aiutare i bisognosi. «Ho covato odio per anni pensando a come avrei reagito incontrandola», racconta nel documentario un amico di Morgan che poi però tanto tempo dopo, quando succederà davvero, la abbracciò e tutto l’odio si stemperò in quel lungo abbraccio e in un altrettanto lungo pianto. Da non perdere, quando arriverà, l’edizione in dvd.

Twitter @DanieleBovi

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One reply on “«I called him Morgan», alla Notari una tragica storia d’amore e musica raccontata con mano delicata”

  1. Lee Morgan era un trombettista. Un minimo, ma proprio un minimo di ricerca prima di stendere e pubblicare un articolo non guasterebbe.

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