di Diego Zurli
In questi mesi, eventi straordinari di varia natura ed entità, hanno messo a dura prova il sistema paese. Si tratta di fatti e situazioni con caratteristiche molto diverse che spaziano dalle massicce ondate di immigrazione, agli eventi sismici – per fortuna di moderata rilevanza – fino a fenomeni estremi a carattere metereologico. La parola che ricorre con rituale frequenza è emergenza. Il vocabolario Treccani la definisce come una «circostanza imprevista, accidente e… a particolare condizione di cose, momento critico, che richiede un intervento immediato». Di emergenza in emergenza, ci siamo ormai pressoché assuefatti all’idea che, ogni qual volta ci troviamo ad affrontare un evento imprevisto o non pianificato che può produrre conseguenze alla vita civile delle comunità, ci troviamo in una condizione emergenziale. In tali circostanze, entra in gioco il sistema della Protezione civile – uno dei migliori al mondo e una delle poche autentiche certezze in un paese che di certezze ne ha sempre meno – e questa situazione può protrarsi per un tempo più o meno lungo fino al ripristino di una qualche condizione di normalità o ritenuta tale.
Non credo possano sussistere dubbi circa il fatto che, in tali circostanze, occorra mettere in campo uomini e mezzi a carattere straordinario. Tuttavia, l’uso e soprattutto l’abuso della categoria dell’emergenza, rischia di concentrare tutta l’attenzione sugli effetti generati dagli eventi stessi mettendone spesso in secondo piano le cause. Si può, ad esempio, ancora considerare straordinari i fenomeni migratori quando tutti i principali osservatori da tempo sostengono che, nei prossimi decenni, centinaia di milioni di persone si sposteranno dai propri paesi di provenienza alla ricerca di condizioni di vita migliori? Si può leggere con gli occhiali dell’emergenza gli eventi estremi a carattere idrologico che hanno colpito il nostro paese – e purtroppo non solo il nostro – in presenza di mutamenti climatici ormai conclamati? E infine, si può considerare un evento a carattere straordinario da affrontare in chiave emergenziale, un terremoto in un paese come l’Italia che presenta quasi ovunque condizioni di elevata pericolosità sismica? Ciò che intendo sostenere è che, fatte salve le indispensabili attività messe in campo dalla Protezione civile in corso d’evento o subito dopo, occorrerebbe uscire da questo pericoloso equivoco che ci induce ad affrontare in chiave di straordinarietà situazioni di natura strutturale che accompagnano l’umanità fino dai suoi albori.
E allora, venendo ai temi che più ci interessano, in questi giorni sono in fase di partecipazione due importanti disegni di legge, il primo dei quali ha per oggetto le modifiche al codice della Protezione civile mentre il secondo le deleghe al Governo per la disciplina organica degli interventi di ricostruzione nei territori colpiti da eventi emergenziali di rilievo nazionale e per l’adozione di un testo unico. Tralasciando il primo, relativamente al secondo occorre ammettere che si tratta di un provvedimento lungamente atteso e di grande importanza per dotare il paese di un’unica disciplina che eviti, come è accaduto in passato, di riscrivere ogni volta le regole prevedendo quasi sempre trattamenti diversi per le popolazioni colpite. Non si tratta di una novità assoluta in quanto, nella passata legislatura, erano stati presentati disegni di legge dai contenuti pressoché identici dalla precedente maggioranza parlamentare mai giunti alla approvazione finale.
Non è certo questa la sede per affrontare una problematica di grande complessità come quella di cui si discute. Tuttavia, emergono alcuni aspetti di carattere generale che suscitano qualche riflessione. La principale riguarda l’impianto complessivo, i principi cardine fissati dal legislatore per definire limiti e spazi su cui esercitare la delega governativa i quali sembrano riproporre in larghissima misura il modello della ricostruzione degli eventi sismici 2016 e successivi che hanno colpito l’Umbria e altre tre regioni del Centro Italia. E allora sorge legittimamente un dubbio: visti gli esiti a oggi non troppo confortanti, siamo davvero convinti che, tra tutti i modelli sperimentati nel tempo, quello del 2016 è quello migliore da adottare per il futuro? Lo dico riconoscendo il grande impegno profuso a ogni livello, ivi compreso quello finanziario dello Stato, che probabilmente non ha precedenti in altri eventi similari. L’Umbria, in occasione di altri eventi sismici, aveva dato ottima prova sperimentando alcune buone pratiche poi adottate a livello nazionale. Ma nel 2016, inspiegabilmente, si è deciso di optare per assetti organizzativi diversi che, numeri alla mano, non sembrano dare gli stessi buoni risultati.
Il mio personale punto di vista è che se il terremoto è una condizione strutturale del nostro territorio, (ma il discorso può estendersi ad altre tipologie di eventi), la chiave di lettura che deve ispirare il percorso della ricostruzione non può essere quella della straordinarietà o dell’emergenza. Occorrono modelli e assetti organizzativi stabili, “normali”, di tipo ordinario, che operino “in tempo di guerra” e quando si deve ricostruire ma, soprattutto, “in tempo di pace” preparandosi al prossimo terremoto mettendo in atto politiche e azioni di prevenzione. Così, si può anche fare a meno di commissari governativi che cambiano al cambiare del colore di ogni governo – da mettere semmai in campo in caso di inerzia conclamata – piattaforme informatiche atrocemente burocratiche o uffici speciali che svuotano le strutture ordinarie dei migliori elementi o altre soluzioni estemporanee se solo si avesse il coraggio di scommettere e di investire, come in passato, sul protagonismo delle comunità recuperando il ruolo insostituibile delle istituzioni territoriali.
Purtroppo, dopo ogni terremoto, si è assistito a un progressivo trasferimento della potestà decisionale dal basso verso l’alto relegando Comuni, Province e Regioni – le espressioni democratiche delle comunità più vicine ai cittadini – a un ruolo ancillare o del tutto subordinato rispetto allo Stato che si è arrogato gran parte dei poteri di intervento, sia in emergenza che nella ricostruzione; in ciò, sostituendosi agli attori locali invece di accompagnarli e aiutarli nel processo di riappropriazione dei propri luoghi di vita. Il nuovo disegno di legge ripropone ancora una volta la figura onnipresente del commissario governativo e strutture “speciali” che si prevede potranno occuparsi di tutto – dalla istruttoria dei progetti, alla erogazione dei contributi, alla redazione degli strumenti urbanistici, al rilascio dei titoli edilizi. Il processo di accentramento di poteri e competenze, a dire il vero, non è iniziato oggi. Un tempo, la valorizzazione del ruolo delle autonomie locali e la loro difesa fu una delle grandi bandiere della sinistra: oggi a farlo c’è rimasta solo la Lega Nord che, pericolosamente, la concepisce in chiave “differenziata” con esiti prevedibilmente nefasti per una regione come l’Umbria. Sbaglierò, ma sono abbastanza convinto che la strada che si intende imboccare non porterà da nessuna parte se non verso un sistema che, deresponsabilizzando i cittadini e indebolendo le istituzioni a essi più vicine, produrrà un sistema più costoso e meno efficiente (nella città dove vivo, tutta la ricostruzione privata dopo il sisma del 1984 fu gestita dal Comune per mezzo di una sola unità lavorativa sotto il coordinamento della Regione) e una pericolosa assuefazione alle logiche dei contributi.
È peraltro assai probabile che il disegno di legge possa finire in un binario morto al pari del precedente. Ma accettare con spirito di rassegnazione l’imposizione dall’alto di un siffatto modello senza interrogarsi sulla sua efficacia, per una comunità regionale che come si affrontano i terremoti lo aveva insegnato all’Italia intera, rappresenta a mio modesto parere un comportamento incomprensibile. Aver affrontato con le proprie forze altri eventi, aveva infatti consentito ad apparati istituzionali e tecnici di sviluppare una efficiente capacità di risposta e di sedimentare una buona cultura della prevenzione sismica: perché, come in natura, è la funzione che sviluppa l’organo. Emblematico, tra gli altri, è stato il caso dei servizi tecnici che si occupavano delle funzioni di controllo e di prevenzione sulle costruzioni in zona sismica che in origine venivano esercitate dalle Province su delega regionale. Si trattava di una struttura di eccellente qualità tecnica con personale formatosi nel tempo anche per via dei tanti eventi di cui si era occupata. Oggi, dopo la sciagurata riforma delle Province, le norme sulla ricostruzione post sisma 2016 e quelle introdotte dal nuovo Codice dei contratti per gli edifici pubblici, le stesse funzioni sono spacchettate in tre distinte modalità operative in capo a figure e strutture diverse. Cioè una stessa funzione esercitata da tre organi diversi. Ma di questa storia, ci occuperemo magari in un altra occasione.