di Valter Biscotti*

È il 20 marzo 1979 quando Carmine Pecorelli, detto Mino, viene freddato in via Orazio, a Roma, mentre sta mettendo in moto la sua macchina per tornare a casa. Quattro colpi. Uno in bocca, tre nella schiena. Un’esecuzione fulminea e brutale. Sin dal primo istante le indagini si frantumano in mille piste, alcune meritevoli di essere approfondite, la maggior parte effimere. Gli investigatori si ritrovano tra le mani una storia più grande di loro o forse non hanno interesse ad andare a fondo nella vicenda, lasciando che sia la figura della vittima stessa a depistare, sviare e confondere in primis l’opinione pubblica e poi anche loro.
Il caso Pecorelli – come già accaduto in altre occasioni – diventa ben presto una galassia costellata di buchi neri, che a loro volta rimandano a universi paralleli. Troppi i moventi, troppi gli attori coinvolti a vario titolo per capirci qualcosa. E infatti nel giro di pochi anni il caso si sgonfia. L’Italia di quel periodo è l’Italia del terrorismo rosso e nero, dei Nar, delle Brigate Rosse, di Prima Linea. L’Italia delle bombe sui treni, di Ustica e di Bologna; l’Italia delle guerre di mafia e di camorra, della Banda della Magliana.
L’attenzione sembra riaccendersi negli anni Novanta, quando la sua morte viene attribuita a una decisione presa in alto. Molto in alto. Ma – anche in questo caso – Pecorelli è l’asso da calare quando serve e una volta tirato resta sul tavolo. Inerte. Parlare di Pecorelli implica sempre parlare di qualcos’altro, o meglio, di qualcun altro, quasi che lui – la vittima – non abbia la dignità di essere trattata come tale. O almeno, questa è la mia impressione, che ho illustrato nel libro ‘Pecorelli deve morire’ (in tutte le librerie dal 21 marzo, ed. Baldini+Castoldi, l’inchiesta giornalistica è stata realizzata da Raffaella Fanelli).
Avendo partecipato a quello che le cronache dell’epoca definirono «il processo del secolo», ho avuto modo di avvicinarmi a questa figura sfuggente, di osservarla da vicino. E – al di là degli stereotipi e delle forzature che ne hanno incrinato il profilo – quello che è apparso davanti ai miei occhi è un uomo. Un uomo che non ha avuto giustizia.
Per sempre? Mi auguro di no. Di certo oggi il suo è, a tutti gli effetti, un cold case – che si potrebbe tradurre (rischiando però di perdere fascino) con «delitto irrisolto» –, una vicenda che, forse proprio perché legata a doppio filo con molte altre, è rimasta fatalmente sullo sfondo, come se capire chi ha ucciso Pecorelli non sia mai stata la priorità.
Venticinque anni fa furono le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, pentito di mafia a sua volta venuto a conoscenza dei fatti da boss Gaetano Badalamenti e Stefano Bontate, a far riaprire il caso. È a questo punto che la mia vicenda personale di uomo – e di avvocato – s’incrocia con quella di Pecorelli.
Nel corso della mia professione, infatti, ho partecipato a molti processi per omicidio, e so che sono incentrati sul dettaglio, sul fatto, sull’analisi concreta, sul perché una cosa è poggiata in un certo modo o sul perché di una lettera, di una telefonata, di una visita. Il processo penale per omicidio è volto sì alla ricerca del movente, ma il dettaglio e l’analisi di tutte le componenti del fatto in sé diventano essenziali per scoprire l’assassino. Ecco, questo nel processi Pecorelli si è perso. Durante la prima istruttoria, grazie alle indagini, è stato fatto solo un tentativo, e la seconda attività di indagine svolta dalla Procura di Perugia, si è rivelato un racconto di tutte le malefatte di questo Paese dagli anni Sessanta in poi. Tutto quello di cui si è discusso non è servito però per arrivare al colpevole. Forse l’ultimo omaggio che Mino ha fatto al suo Paese durante il processo, a venti anni dalla sua morte, è stato mettere in piazza un potere marcio attraverso tutti i suoi servizi giornalistici. Però per lui non è stato il processo giusto.
Nessuno ne ha colpa. I pm Fausto Cardella e Alessandro Cannevale sono stati straordinari, così come le difese che li hanno contrastati, ma è mancato qualcosa. Nello scrivere la storia e le impressioni personali che ho raccolto durante il processo, che ha segnato profondamente la storia di questo Paese, un processo in cui Pecorelli è stato usato, un processo che non è servito a cercare il suo assassino, un processo dove il movente è diventato l’anima centrale, abbandonando di fatto la vittima, credo sia ancora possibile arrivare a capire cosa sia davvero successo la sera del 20 marzo 1979.
Raccontare Pecorelli oggi è dunque un atto dovuto alle comunità giudiziarie, politiche e giornalistiche, ma anche ai comuni cittadini. Le pagine che seguono, dense di nomi, avvenimenti, carte giudiziarie, foto inedite e aneddoti vissuti in prima persona dall’interno, vogliono essere in parte una testimonianza diretta della complessità di una pagina indelebile della nostra storia repubblicana, ma soprattutto un omaggio a lui, l’uomo Mino Pecorelli.

*avvocato e scrittore

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