Foto archivio ©Fabrizio Troccoli

di Ester Pascolini

Se si volesse dare un titolo a questo articolo potrebbe essere: “Il ribaltamento democratico, la subalternità dei cittadini e la solitudine del giornalista”.

La Costituzione italiana sancisce, all’articolo 21, la libertà di manifestazione del pensiero: “con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Una frase che permette un’interpretazione in senso ampio e che tutela sia il diritto individuale che quello collettivo, estendendolo ai cittadini e a tutti i mezzi di comunicazione, a partire dalla stampa, cui vengono dedicati anche altri commi specifici nell’articolo. Di rimando viene garantito, quindi, anche il libero esercizio della professione giornalistica, tutelata poi da diverse leggi e regolamenti di autodisciplina, oggi raccolti nel “Testo unico dei doveri del giornalista”. Naturalmente la Costituzione resta la madre di tutte le leggi, ma da essa derivano tutte le altre, insieme alle norme che regolano, in Italia, la libertà di espressione.

Fin dagli albori della democrazia moderna, la libertà di esprimere il proprio pensiero si è delineata come strumento di garanzia dell’esercizio democratico, un diritto fondamentale e inviolabile sancito da ogni ordinamento. Tanto da essere considerato uno dei capisaldi della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, partorita in Francia nel 1789: Art.11 – “La libertà di comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può quindi parlare, scrivere, stampare liberamente…”.

Gli Stati europei, sui quale il vento democratico ha soffiato forte nel corso dei secoli, hanno recepito in tutte le costituzioni questo principio fondamentale che affonda le sue radici nella rivoluzione francese. Questo diritto necessita però di essere riaffermato continuamente, come la storia dei totalitarismi europei del novecento ci ha, purtroppo, dimostrato. E con la nascita dell’Unione europea, questo non poteva non essere inserito nella “Carta dei diritti fondamentali”: Art.11 – “Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche”.

La libertà di espressione è anche principio cardine della costituzione degli Stati Uniti, che lo sancisce con il First Amendment nel 1791: “Il Congresso non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione, o per proibirne il libero culto; o per limitare la libertà di parola o di stampa; o il diritto che hanno i cittadini di riunirsi in forma pacifica e di inoltrare petizioni al governo per la riparazione dei torti subiti.”

È proprio a tutti gli articoli citati che si può agganciare questa riflessione, in particolare all’esercizio della libertà di espressione in senso sociale e collettivo.

Oggi il diritto di espressione viene pienamente esercitato da tutti i cittadini nella sua forma individuale, talvolta spingendolo fino al limite di ciò che è consentito dalla legge, soprattutto attraverso i canali social, che vengono ritenuti il luogo ideale per esprimere le opinioni. Il tema è così sentito che riesce a scatenare continui dibattiti, pubblici e accademici, sugli utilizzi impropri di questa libertà e sulla mancanza di normative specifiche a governo dei processi di comunicazione via internet. A stupire è l’errata percezione della comunicazione a mezzo social. Per qualche insondabile ragione, le persone non si rendono conto di essere viste e lette praticamente da chiunque, esprimono le proprie opinioni su Facebook o Instagram convinte di correre un rischio minore rispetto alle altre forme di comunicazione, come se lo schermo potesse metterle al riparo da eventuali ripercussioni.

Quando si cerca di raccogliere la voce dei cittadini su questioni spinose, fatti di cronaca, episodi di ingiustizia, in modo da inserire le loro dichiarazioni all’interno degli articoli giornalistici, si assiste, al contrario, a una sorta di timore, specialmente quando si tratta di riportare il pensiero collettivo: quello di un’associazione, di un’azienda, di istituzioni, di gruppi. Ci si trova spesso in situazioni in cui, al primo contatto, si raccolgono rabbia, insoddisfazione, voglia di rivendicare i diritti, ma nel momento in cui si ricevono le dichiarazioni ufficiali accade qualcosa, d’improvviso le parole tendono alla prudenza ed emergono atteggiamenti di paura e di contegno reverenziale nei confronti del potere, della politica in particolar modo. Cosa può aver condotto a tale cautela?

È possibile che i cittadini abbiano perso autorevolezza rispetto a chi li governa perché non esercitano a pieno il diritto di esprimersi in senso collettivo? I processi di secolarizzazione, l’individualismo forsennato, la disaffezione per la politica, hanno rotto il collante sociale, creando questo ribaltamento democratico in cui i cittadini sembrano aver dimenticato che l’unione fa la forza, diventando, quindi, subalterni al potere. La forza del gruppo sembra essere solo apparente, perfetta per il mondo social, ma non per la vita reale. In quella ci si sente isolati, fragili, esposti, anche all’interno delle comunità stesse. Per tale ragione viene chiesto ai giornalisti di fare uno sforzo, di prendersi, in solitaria, la responsabilità delle rivendicazioni, senza tirare troppo in ballo i protagonisti, che preferiscono restare un passo indietro. Il giornalista si presta a questo gioco in nome dell’interesse pubblico e del diritto di esercitare la cronaca e la critica, avvertendo però anche un senso di smarrimento, di solitudine, una sorta di interruzione di quella catena di montaggio della democrazia in cui ogni parte in causa dovrebbe avere un ruolo, incluso il giornalista, che dovrebbe essere guardiano neutrale e mediatore dei rapporti tra i cittadini e il potere.

E se la crisi della democrazia è nota da tempo, e questo meccanismo interrotto ne è la prova, non vale altrettanto per le soluzioni. Tutte le conquiste umane, soprattutto nella direzione dei diritti, sembrano derivare dall’agire collettivo, la storia non ci presenta altra strada. Quando l’unica scappatoia è rappresentata dai legami (reali, non solo virtuali) tra gli uomini e dalla forza moltiplicata che da essi deriva, come invertire la rotta in una società in cui l’individuo, oggi come non mai, sembra essere posto al centro? Questo è lo spunto di riflessione su cui varrebbe, forse, la pena ragionare, alla ricerca di una nuova consapevolezza come punto di partenza del cambiamento, come primo passo verso un ritrovato equilibrio nel rapporto tra gli uomini e il potere e verso la giusta ricollocazione delle parti coinvolte nella catena di montaggio della democrazia.

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