Moni Ovadia a Spoleto per l’evento di Natale del Festival. Manca ancora il cartellone degli appuntamenti di fine anno, ma il Due Mondi intanto ha svelato quello che è destinato a essere uno degli appuntamenti di punta dell’ultimo scorcio del 2019. Il 27 dicembre al Nuovo-Menotti va in scena Cabaret Yiddish che, oltre a Moni Ovadia, porterà sul palco la Stage Orchestra per uno spettacolo dedicato alla lingua, alla musica e alla cultura Yiddish, che l’artista da anni presenta nei teatri di tutta Italia.

Uno spettacolo da camera sulla condizione universale dell’Ebreo errante, che alterna brani musicali, canti, aneddoti e citazioni, tutti incardinati su quella parte di cultura ebraica, di cui lo Yiddish rappresenta la lingua e il Klezmer la musica. A suonarla saranno Maurizio Dehò (violino), Paolo Rocca (clarinetto), Albert Florian Mihai (fisarmonica), Luca Garlaschelli (contrabbasso) e al suono Mauro Pagiaro. Lo spettacolo per Moni Ovadia «sa di steppe e di retrobotteghe, di strade e di sinagoghe», riproducendo quello che l’artista chiama «il suono dell’esilio, la musica della dispersione»: in una parola della diaspora. Su Cabaret Yiddish Ovadia ha già spiegato di aver «scelto di dimenticare la “filologia” per percorrere un’altra possibilità, proclamando che questa musica trascende le sue coordinate spazio-temporali “scientificamente determinate” per parlarci delle lontananze dell’uomo, della sua anima ferita, dei suoi sentimenti assoluti, dei suoi rapporti con il mondo naturale e sociale, del suo essere “santo”, della sua possibilità di ergersi di fronte all’universo, debole ma sublime. Gli umili – ha detto l’artista che hanno creato tutto ciò prima di poter diventare uomini liberi, sono stati depredati della loro cultura e trasformati in consumatori inebetiti ma sono comunque riusciti a lasciarci una chance postuma, una musica che si genera laddove la distanza fra cielo e terra ha la consistenza di una sottile membrana imenea che vibrando, magari solo per il tempo di una canzonetta, suggerisce, anche se è andata male, che forse siamo stati messi qui per qualcos’altro»

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