di Enzo Beretta
Il piccolo Alex, due anni appena, è stato ucciso a Po’ Bandino dalla madre Erzsebet Katalina Bradacs «con una violenza inaudita, una serie di coltellate portate in rapida successione, alcune delle quali talmente violente da trapassare letteralmente da parte a parte il corpo del bimbo, prima che la lama del coltello da bistecca prelevato dall’abitazione di un suo amico si rompesse urtando contro il terreno incolto del luogo del delitto». La 46enne ha deciso di ucciderlo il 1° ottobre 2021 quando «si è resa conto di aver definitivamente perso la controversia per l’affidamento del figlio che avrebbe dovuto riconsegnare al padre una volta tornata in Ungheria. È quanto si legge nelle motivazioni della sentenza attraverso la quale la Corte d’Assise di Perugia ha condannato a 20 anni di carcere l’imputata che dopo aver adagiato il corpicino imbrattato di sangue e ormai senza vita del bambino sul rullo del nastro trasportatore delle casse del supermercato Lidl ha «tentato di sviare le indagini su un ipotetico ‘uomo nero’ ritenuto responsabile dell’insano gesto».
«Il piccolo sottratto con ostinazione» La donna, che in passato aveva lavorato come spogliarellista e pornostar in alcuni locali della Capitale aveva «minacciato che avrebbe ucciso il bambino se fosse stato affidato al padre»: quando torna in Italia – ricostruiscono i giudici Carla Maria Giangamboni ed Edoardo Esposito – «non vuole proteggere il piccolo Alex da abusi che potrebbe subire restando con il padre ma vuole solo sottrarglielo, con ostinazione».
«GIOCAVA CON IL TRENINO, POI RICORDO SOLO IL SANGUE»
«Una ‘cosa’ di sua proprietà» Alex «ormai non era nient’altro che una ‘cosa’ di sua proprietà, che non intendeva a nessun costo cedere ad altri» perciò «il delitto è stato il punto terminale della scelta ponderata» di una donna che «al momento di uccidere il figlio era perfettamente in grado di comprendere cosa stesse facendo». Ed è quindi da «escludersi che i disturbi di personalità di cui è affetta (disturbo borderline e depressivo) abbiano influito sulle capacità cognitive al punto di impedirle di rendersi conto del significato e del disvalore della propria condotta». A pena espiata l’imputata, difesa dagli avvocati Luca Maori ed Enrico Renzoni – hanno stabilito i giudici – trascorrerà tre anni in una casa di cura.