di Enzo Beretta

Davide Piampiano ha acceso la telecamera della GoPro che ha filmato il suo omicidio in diretta appena tre minuti prima di morire. È quanto emerso nel corso delle indagini che venerdì hanno portato in carcere l’amico muratore Piero Fabbri, 56 anni, il Biondo, l’uomo che per errore lo ha ucciso sui monti del Subasio con un colpo di fucile che gli ha perforato il fegato. Agli atti del fascicolo c’è il video registrato da Davide il pomeriggio di quel maledetto 11 gennaio, un video della battuta di caccia al cinghiale che probabilmente sarebbe stato pubblicato dal giovane sui propri profili social, e che invece è diventato la prova regina dell’inchiesta. Sì, perché se l’autopsia era riuscita a mettere in risalto alcuni dubbi a proposito delle modalità della morte, aprendo scenari di incompatibilità con l’incidente autonomo, il video contiene le immagini e gli audio del suo assassino che si rende conto di ciò che ha combinato ma nonostante ciò fa poco o niente per rimediare al danno provocato.

Il fucile di Davide non ha mai sparato Pochi istanti prima di morire la microcamera che Davide aveva posizionato sul cappellino filma le sue mani che stringono il cellulare e un navigatore satellitare. L’obiettivo inquadra anche la canna del fucile che il giovane porta a tracolla, rivolta verso il basso e perfettamente aderente alla coscia. Davide cammina nel bosco, al terzo minuto ecco lo sparo, un boato fortissimo anticipa le immagini del giovane 24enne che si accascia a terra. Il video è straziante. Piampiano è stato centrato allo sterno, non si vede partire il colpo e non si capisce neppure da quanti metri di distanza, ma è stato Fabbri a sparare per errore. Adesso il muratore si avvicina per farfugliare qualcosa come «Credevo fossi il cinghiale». La vittima inizia a perdere sangue sotto il giubbetto e con la voce sempre più flebile riesce solamente a dire: «Piero, sono morto». Quello, però, si preoccupa dell’arma di Piampiano, che – è importante sottolinearlo – non ha mai sparato. L’agonia del povero Davide è durata una quindicina di minuti, durante i quali Fabbri lo ha lasciato letteralmente morire. Forse è perfino rientrato a casa sua, che si trova a 300 metri dal luogo del crimine, per cambiarsi gli indumenti e liberarsi del fucile che aveva ucciso. Solo quattro o cinque minuti dopo lo sparo avvisa Alessandro Preziotti al telefono. All’amico con cui Davide era uscito per andare a caccia in un giorno vietato e in un’area protetta, incarta la prima bugia: «Alessà… Alessà… curre… curre da Davide… gli è partita una botta».

Il comportamento di Fabbri Perché il muratore, l’uomo che Davide considerava il suo «secondo papà» si sia comportato in questa maniera è apparentemente inspiegabile. Suggestioni: l’ignoranza, il timore di incappare in una responsabilità colposa (che per gravità non ha nulla a che vedere con quello che gli viene contestato adesso: l’omicidio volontario prevede la pena dell’ergastolo), la paura che gli venisse sequestrato il fucile. Difficile da capire anche come abbia fatto, in queste settimane, a custodire il proprio segreto portando parole di conforto ai familiari di Davide nel giorno del funerale, a casa e, in ultimo, alla messa in suffragio del loro ragazzo.

L’interrogatorio Domani alle 12 è previsto l’interrogatorio davanti al gip Piercarlo Frabotta, il quale nella propria ordinanza di custodia cautelare ha già anticipato che il fascicolo verrà trasmesso a Firenze in quanto la madre di Davide è un magistrato onorario del tribunale civile di Spoleto. Fabbri potrebbe parlare. Almeno provare a spiegare. Quasi certamente chiederà almeno scusa. Nelle ultime ore l’avvocato Delfo Berretti, assisano, ha rinunciato al mandato in quanto legato alla famiglia Piampiano: Fabbri si farà difendere da Luca Maori. La partita del suo assistito si gioca sul nesso di causalità: se Fabbri avesse chiamato immediatamente i soccorsi, Davide, si sarebbe potuto salvare? La domanda è solo il preludio a una guerra anticipata di perizie.

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