di Daniele Bovi

Un comportamento «palesemente infedele» rispetto «ai loro obblighi di ufficio», nonché uno «sviamento della loro condotta a finalità egoistiche perseguite a discapito delle finalità di servizio, con evidente compromissione dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità dell’azione amministrativa». È questo il passaggio chiave della sentenza con la quale, nelle scorse ore, la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti dell’Umbria ha condannato tre agenti della polizia stradale in forze al distaccamento di Todi.

La vicenda I tre dovranno risarcire al ministero dell’Interno un totale di 4.475 euro e 20 centesimi – più le spese legali – per danno da disservizio e danno patrimoniale. Al centro della vicenda ci sono quindici turni serali (19-1) o notturni (1-7) risalenti al periodo che va dal primo ottobre al 13 dicembre 2013 quando i tre, secondo quanto ricostruito, iniziavano il pattugliamento con ritardo o rientravano in caserma con largo anticipo, omettendo di comunicare il tutto alla centrale operativa, alla quale invece dicevano di trovarsi lungo una delle strade da pattugliare. Fatti per la Corte ampiamente dimostrati da deposizioni e dati del sistema di allarme e del sistema gps.

Condotta ingannevole Nella sentenza la Corte parla di un’acclarata condotta ingannevole che ha portato al danno erariale (relativo alla retribuzione percepita per quei turni) e che «risulta comprovato il dolo dei medesimi, che hanno ostentato, con consapevole volontà di non ottemperare ai loro obblighi di servizio, un comportamento contrario ai loro doveri, occultato mediante false comunicazioni alla centrale operativa cui tacevano il rientro in caserma e, peraltro, reiterato nel tempo, nonché connotato da grave negligenza». Una notte, come accertato nel corso di un’ispezione condotta dall’allora vice questore, la pattuglia sosteneva di essere a Pantalla e invece era in caserma, dalla quale ha visto uscire due agenti «insonnoliti e senza cinturone».

La sentenza Il processo contabile, benché completamente indipendente, è nato sulla scorta di quello penale. In primo grado i tre (rinviati a giudizio per truffa ai danni dello stato, falsità, abbandono del posto o del servizio e altri reati) sono stati condannati con pene da un anno e due mesi a un anno e sette mesi; in appello però sono stati assolti per alcuni reati mentre per altri è arrivata la prescrizione. I due agenti che si sono costituiti in giudizio hanno respinto le accuse sostenendo che in diversi casi rientravano in caserma per sbrigare delle attività burocratiche (verbali, rapporti e cose simili) vista l’impossibilità di godere delle ore di straordinario. Fatti non dimostrati secondo la Corte che chiede come mai, anche se fosse in voga quella prassi, i due «avrebbero dovuto accampare la scusa di essere appena rientrati in caserma per espletare delle esigenze fisiologiche».