di Enzo Beretta 

Omicidio colposo e omesso controllo è l’accusa che viene contestata a due giovani di 21 e 24 anni in relazione alla morte del piccolo Gianmaria Ciampelli, 6 anni, annegato il 15 luglio 2021 nella piscina del Centro Ippico San Giovanni di Città di Castello durante un campus estivo. Il processo nei loro confronti è alle battute finali e oggi è stato sentito dal giudice Lidia Brutti del tribunale di Perugia un testimone della difesa, il genitore di un altro bambino presente al momento dell’incidente. Secondo l’accusa, sostenuta dal procuratore aggiunto Giuseppe Petrazzini, i due imputati «addetti al controllo del gruppo di minori» hanno «omesso una concreta vigilanza sui piccoli che non venivano visivamente controllati». I drammatici momenti della morte del bimbo, figlio di un noto allenatore di calcio, sono documentati dal filmato di una telecamera del circuito di sorveglianza diretta verso la piscina dell’azienda agrituristica: il video è finito agli atti dell’inchiesta che nei mesi scorsi ha già portato alle condanne con rito abbreviato – a un anno e ad un anno e otto mesi – dell’amministratrice legale rappresentante della struttura agrituristica e della responsabile del centro estivo. Entrambe hanno proposto appello ma l’udienza non è stata ancora fissata. 

Stando alle risultanze medico legali «è altamente probabile che la causa della morte» del bambino «sia stata l’asfissia meccanica causata dall’immissione di un mezzo liquido esterno». «La morte – scrive il dottor Massimo Lancia – è avvenuta per una insufficienza respiratoria acuta secondaria alla sostituzione del contenuto aereo dei polmoni con il liquido ed il successivo impedimento per la presenza di quest’ultimo, dei normali scambi gassosi che ha portato progressivamente all’occlusione delle vie respiratorie, all’edema polmonare e infine alla morte». Si legge nelle carte giudiziarie: «La morte, alla luce delle evidenze mediche, è avvenuta proprio in conseguenza dell’ingresso di acqua nei polmoni, con conseguente edema polmonare e blocco ematico degli altri organi ed apparati». 

Tra i testimoni sentiti c’è chi ha raccontato che «i familiari avevano portato presso la struttura i braccioli ma gli stessi erano stati lasciati all’ingresso»: neanche Gianmaria indossava i braccioli.

«Il numero particolarmente elevato dei bambini presenti e la mancanza di idonea qualificazione del personale addetto alla vigilanza palesa macroscopiche e gravi carenze nella gestione dell’attività e nella presisposizione delle idonee misure di sicurezza – scrive il giudice per l’udienza preliminare che ha scritto la sentenza di condanna – carenze che assumono rilevanza causale rispetto all’evento morte». C’erano bimbi da vigilare, bimbi con «scarse competenze acquatiche»: «Per fronteggiare questio rischi erano stati incaricati due ragazzi che, invece, erano chiaramente privi di competenze specifiche e che in particolare non avevano mai frequentato corsi specifici di salvamento in acqua e non avevano conseguito il titolo di assistente bagnanti». Proprio su questi punti si gioca la difesa dell’avvocato Nada Lucaccioni: i suoi assistiti – ha puntualizzato più volte – non avevano incarichi di sicurezza, non erano bagnini o educatori, bensì semplici animatori.

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