di Daniele Bovi

Più che gli arabi, l’araba fenice. Sul piano sportivo la primavera in cui, causa virus, il Grifo si è dovuto fermare nel bel mezzo di una stagione dai risultati altalenanti, sembra una piacevole gita fuoriporta rispetto a quella di dieci anni fa, quando il Perugia fallì per la seconda volta per poi rinascere nel giro di alcune settimane. Un B-movie – e la categoria cadetta sognata allora non c’entra nulla – in cui sono comparsi sceicchi, istruttori di sub, cavalieri e altri commedianti: «Non era tutto a posto» potrebbe essere il titolo, parafrasando il tormentone di quei mesi; momenti grotteschi e altri da ridere se solo di mezzo non ci fosse stato l’amore per i colori e per una maglia. Rimettere in fila nomi, numeri e fatti è un’operazione utile a ricordare in quale baratro può finire un club e a separare il grano dalla pula.

Dal Peruggia al Perugia Finita la breve era dei Silvestrini, che salvarono il Grifo dopo il primo fallimento permettendogli di ripartire dall’allora C1, nell’estate del 2008 i teorici locali del sovranismo applicato al rettangolo verde possono esultare grazie all’arrivo di Leonardo Covarelli, che ha appena venduto il Pisa a Luca Pomponi: «Il Perugia ai perugini», senza quella per molti indigesta doppia «G» e col sogno di un qualche faraonico progetto legato allo stadio, kryptonite per ogni presidente biancorosso. Il «tifoso della curva», come allora si presentò, corona il suo sogno che in meno di due anni si trasforma in un incubo. Il primo anno le ambizioni sono altissime ma la stagione finirà con lo spettro della C2 scacciato all’ultimo secondo dopo una vorticosa girandola di allenatori (compreso un malcapitato Maurizio Sarri, che pochi all’epoca ebbero il merito di comprendere e apprezzare).

Dai sogni agli incubi La stagione seguente inizia con una scelta quantomeno bizzarra (il ritiro biancorosso in un hotel del centro storico di Perugia, La Rosetta), la presentazione di una mega «cittadella dello sport», documenti per l’iscrizione depositati letteralmente all’ultimo minuto dopo giorni di allarme e una prima esclusione da parte della Covisoc. Nel frattempo, il Pisa fallisce, i dubbi aumentano e arrivano le penalizzazioni della Commissione disciplinare nazionale e i deferimenti per i mancati pagamenti delle ritenute Irpef e dei contributi Enpals; quanto al campo, la stagione termina con un triste undicesimo posto, due punti di penalizzazione e tre cambi di allenatore. La girandola riguarda anche l’assetto proprietario: nel 2009 le quote e quindi la proprietà, come messo in evidenza da una serie di articoli, passano dalla Mas di Covarelli (che rimane però presidente) a una srl, la Ge.Se. (che fino a poco prima si chiamava Istituto Enrico Fermi Ancona) il cui unico socio è tal Ezio Barbieri, perugino che risultava essere un istruttore federale di sub.

Prestito in fin di vita A marzo la situazione precipita dopo che il mese precedente Lucio Lo Sole, un imprenditore coinvolto da Covarelli nel tentativo di salvare il Pisa, presenta un’istanza di fallimento da 14 milioni (Lo Sole, come raccontò lui stesso, sostenne di aver concesso il prestito mentre si trovava in fin di vita su un letto di ospedale nel luglio 2008); l’appuntamento al Tribunale fallimentare di Perugia è per il 4 maggio, i giocatori (come altri dipendenti) lamentano mesi di arretrati e a fine marzo – elettrico presagio di sventura – l’Enel si presenta al Curi per staccare la corrente che sarà riattaccata solo ore dopo. L’annunciata ricapitalizzazione poi, non arriverà con soldi freschi bensì (operazione fortemente contestata dal collegio sindacale) conferendo un immobile di Taverne di Corciano sul quale c’è una perizia firmata dal commercialista fiorentino Nicola Ermini, nome da tenere a mente. Il timore del fallimento è forte, e in questo vortice di caos sono in molti a pensare che sia l’unico modo per salvare il Perugia e ricominciare: i tifosi protestano e l’allora sindaco Wladimiro Boccali per salvare il salvabile nomina tre esperti allo scopo di passare al setaccio la situazione disperata del club, con un ‘rosso’ da quasi 5 milioni, e fare da anello di collegamento con potenziali acquirenti.

Le cordate A pochi giorni dall’appuntamento in tribunale, Covarelli spiega di aver risolto la questione istanza con Losole (ma nel frattempo Pomponi ne presenta un’altra da 3 milioni) e che di lì a breve avrebbe lasciato il ruolo di amministratore unico. A chi? A Ermini. In campo da qualche settimana era sceso anche una vecchia conoscenza come Ermanno Pieroni, ex ds biancorosso ora sedicente emissario di una cordata di imprenditori (si favoleggiò anche di importanti presidenti di club di Serie A) pronti a salvare il Perugia e la categoria; nomi però mai rivelati pubblicamente. Pieroni e soci non li fanno neanche il 3 maggio, giorno prima dell’udienza, quando convocano una conferenza stampa per illustrare il loro progetto di salvataggio. Poche ore dopo, in questa specie di guerra tra cordate fantasma, la stampa viene precettata anche da Ermini al Curi, con il commercialista che sventola un foglio sostenendo di avere un’offerta di acquisto da 5 milioni valida per 30 giorni e, cosa che aggiunge un tocco di esotismo alla commedia inscenata per evitare la sentenza di fallimento, «non si tratta di italiani». E c’è di più: i milioni non sono un problema, ma gli sceicchi vogliono capire quanti siano realmente i debiti.

Si va giù e si pigliano i soldi Nel foglietto, scritto peraltro male, si fa il nome di una SA svizzera, una società anonima, dietro la quale si fa trapelare che ci sono degli arabi, ovviamente ricchissimi: «’Un ci son mi’a problemi, se servon più soldi si va giù e si pigliano», dice quel giorno al cronista uno strampalato personaggio toscano, presentatosi come addetto stampa della cordata e arrivato al Curi, sprezzante del pericolo, con un’auto tappezzata di sciarpe della Fiorentina. Alcuni dei protagonisti probabilmente pensavano di trovarsi davanti la povera ingenua Wanda Cavalli, sognante ragazza di provincia di fronte al dondolante Sceicco bianco di Alberto Sordi. Fatto sta che il tribunale concede altre due settimane di tempo per appianare la situazione relativa alle istanze e la domenica, al Curi, buontemponi folignati arrivati per Perugia-Foligno vestiti da sceicchi lanciano banconote finte; dopo la farsa, l’umiliazione aggravata pure da uno 0-2. Ma la svolta, e con essa uno dei vertici di quei mesi grotteschi, arriva il 9: il Perugia avrebbe cambiato proprietà grazie alla cordata guidata dall’imprenditore di Marcellano di Gualdo Cattaneo Torello Laurenti.

Lo sceicco fantasma Il giorno dopo, la stampa viene convocata al Grand relais dell’immobiliarista a Marcellano; immortale rimarrà la breve intervista rilasciata all’ottimo Marco Taccucci da Laurenti il giorno prima fuori dal relais: «È lo sceicco Al Maktoum?», «Sì sì è lui» risponde l’imprenditore sbrigativamente solo per liberarsi dall’assedio. L’emiro, tra gli uomini più ricchi del pianeta e con la passione dell’endurance (praticato anche in Umbria), è a un passo dal Perugia e la notizia finisce sui tg nazionali. Al relais c’è quindi la ressa, la conferenza stampa non inizia e i cammelli non si vedono. Al tavolo, oltre a Ermini e Laurenti, anche quello che viene presentato come il direttore di un importante istituto di credito straniero, che però non vuol dire per quale banca lavora; come se non bastasse, Ermini spiega che le cose per il suo passaggio al vertice del Grifo si sono complicate. Il caos misto alla farsa. Il clima si surriscalda, la stampa pressa e al tavolo c’è anche un fino ad allora imprecisato personaggio, che alle richieste dei giornalisti di qualificarsi risponde con un marcato accento campano «je song Marie»; al secolo Auriemma Mario del «Movimento popolare per la moralizzazione», come risulta dal biglietto da visita: «Portatelo qua a Covarello!», intima. La conferenza stampa finisce nel caos.

Il fallimento Nel frattempo, piovono smentite sul coinvolgimento dell’emiro («clamorosa vendita di fumo» dice Gianluca Laliscia, imprenditore perugino che organizza eventi di endurance) e il passaggio di proprietà non viene formalizzato: il 13 maggio, mentre fuori dal Curi si radunano tifosi e giornalisti, dentro si discute intorno a una «bozza di fideiussione», un facsimile insomma; il pomeriggio, a proposito di bozze, l’auto di Ermini viene centrata da alcune pedate. Il 17, a notte fonda e a poche ore dall’udienza fallimentare, altra giravolta: spunta, oltre alla desistenza di Pomponi, un «gruppo importante» pronto a farsi carico di tutto e portare il Grifo serenamente, si fa per dire, a fine stagione. Chi era? Una tal «Osj knights of Malta foundation», società inglese neanche lontana parente dei Cavalieri; il giudice, ovviamente, non prende in considerazione i cavalieri e dichiara, finalmente, il fallimento con una sentenza che rappresenta la pietra tombale sugli ultimi due anni di gestione. E il 9 giugno, ultimo giorno per presentare un’offerta e provare almeno a salvare la categoria, non si presenta nessuno. Tutti svaniti nel nulla: per la seconda volta il Grifo è fallito.

Proclami e affari Tutto ciò al termine di un diluvio di proclami, promesse, giravolte, opacità, banconote del Monopoli e anche di sfilate su e giù per Palazzo dei Priori, dove nello studio del sindaco arrivano alcuni personaggi improbabili con altrettanto improbabili «piani industriali». Ermini ad esempio, ricorda Boccali nel libro intervista che chi scrive ha pubblicato nel 2016, si presenta per accreditarsi come «amico di Pierluigi» (Bersani) e di Andreotti, un altro un paio di giorni dopo l’incontro in Comune viene arrestato, un altro voleva «fare affari»; «ti chiamavano – ricorda il sindaco – dicendo cose improbabili e pensando che io venissi dalla luna o che fossi un cretino». Conversazioni subito dopo le quali Boccali chiama chi di dovere per raccogliere informazioni, come quando Pieroni e Di Campli sostengono che dietro la cordata ci fosse Angelo Colussi; peccato che due giorni prima, durante una cena, l’imprenditore disse al sindaco in cerca di soluzioni di non essere interessato al Grifo. Al sindaco però, allo stadio, viene dedicato uno striscione ingeneroso mentre in quei mesi folli Boccali ci mette la faccia e tiene la barra dritta. Il Grifo ripartì dalla D con la solidità, la passione e l’umiltà dell’imprenditore di Cannara Roberto Damaschi; «cipollaro», lo chiamò in modo sprezzante qualcuno, forse preferendo i sogni di latta pagati coi soldi del Monopoli. Molti tifosi probabilmente conserveranno nel cuore quei campionati di D e C2 fatti di passione, genuinità, trasferte a Deruta e Piancastagnaio e rinnovato affetto, ma di sicuro nessuno vuole rivivere quei mesi e tornare a calcare quei campi.

Twitter @DanieleBovi

Questo contenuto è libero e gratuito per tutti ma è stato realizzato anche grazie al contributo di chi ci ha sostenuti perché crede in una informazione accurata al servizio della nostra comunità. Se puoi fai la tua parte. Sostienici

Accettiamo pagamenti tramite carta di credito o Bonifico SEPA. Per donare inserisci l’importo, clicca il bottone Dona, scegli una modalità di pagamento e completa la procedura fornendo i dati richiesti.