Luciano Linzi (foto F.Troccoli)

di Daniele Bovi

Un’edizione 2015 che per cartellone e prevendite fa pensare a quella «straordinaria» del quarantennale 2013, lo sbarco in Cina programmato per la primavera 2016, la necessità di trovare più risorse, la contaminazione tra luoghi e generi come strada da continuare a percorrere e la necessità che Umbria Jazz abbia una propria ‘casa’ dove poter vivere tutto l’anno. Dal gennaio 2013 sulla tolda di comando di quello che, come ha detto Renzo Arbore, è per importanza il secondo festival jazz al mondo dopo quello di Newport c’è, con il ruolo di direttore generale della Fondazione Umbria Jazz, Luciano Linzi, voluto da Carlo Pagnotta. Cinquantasei anni, veneto nato a Venezia, nei primi anni ’80 dà vita a una casa discografica, per 5 anni organizza i concerti italiani di Keith Jarrett, per altri 15 lavora per una delle principali major discografiche e poi, dal 2004 al 2010, l’approdo alla Casa del Jazz di Roma. Mentre il telefono di Linzi squilla in continuazione, Umbria24 fa con il direttore il punto a poche ore dal via ufficiale di UJ.

Direttore, che festival sarà?

«Un festival dal cartellone davvero prestigioso, ricchissimo di stimoli e proposte anche diverse tra di loro; un mosaico messo insieme con la consueta bravura da Carlo Pagnotta e da tutti noi. Una UJ nel segno della contemporaneità, del futuro. Il concerto-evento sarà quello di Bennett e Gaga, unica data italiana che rappresenta un progetto simbolo: da una parte c’è il più grande cantante jazz vivente, dall’altra la più grande icona pop vivente. Il tutto su un terreno consono alla storia del festival perché si rilegge il grande libro degli standard. Un concerto in grado di attrarre un pubblico trasversale, interessato a traiettorie differenti e alle contaminazioni, sullo stile di quello che faranno i Subsonica, che presentano un progetto ad hoc per noi. Poi c’è spazio per talenti e musicisti giovani, gli eredi dei giganti tutti venuti qui da noi ma che vanno inevitabilmente via via scomparendo».

C’è poi il programma del teatro Morlacchi.

«Il luogo tradizionalmente legato alla programmazione più jazzistica e dove si possono trovare proposte interessantissime: c’è il ritorno di Brad Mehldau, che ha mosso qui i suoi primi passi e oggi è una star, uno dei migliori pianisti in circolazione. C’è il ritorno di Bill Frissell che viene con un progetto legato ai brani che lui ha imparato iniziando a suonare, dal rock al pop. Poi ci sono Charles Lloyd, un gigante di quasi 80 anni che non sbaglia un disco o un concerto. In più presentiamo cose molto nuove e giovani come Vijay Iyer, una delle più belle realtà del jazz di oggi, il trio dei GoGo Penguin e Theo Croker. Al solito, ci sono tanti protagonisti italiani, da Rava a Di Battista, da Antonio Faraò a Giovanni Tommaso. In più penso al duo pianistico Bahrami-Rea, un intreccio tra mondi lontani».

Come stanno andando le prevendite?

«Molto bene, i risultati di questi giorni ci portano a paragonare questa edizione a quella straordinaria del 2013, del quarantennale; insomma speriamo che quella parte importante del nostro bilancio sia all’altezza delle attese. Il tutto in un anno in cui abbiamo affrontato difficoltà importanti: abbiamo ottenuto meno soldi da parte di alcune istituzioni e abbiamo incontrato difficoltà con sponsor privati che hanno dedicato la quasi totalità del loro budget a Expo».

Chi sono i musicisti che non siete riusciti a portare a UJ? Per molte settimane ad esempio si è parlato degli Who.

«Sì, era un’opportunità che abbiamo provato a cogliere, ma ci siamo dovuti arrendere dato che hanno cancellato la parte italiana del loro tour. Capita».

Altri nomi?

«Altri no perché alla fine abbiamo puntato tutto su Lady Gaga e Bennett, un progetto ghiotto da tutti i punti di vista: per caratteristiche artistiche e capacità mediatiche è in grado di dare risalto e visibilità all’intero festival».

Lei ha lavorato per molti anni con Keith Jarrett, ha pensato anche a lui?

«No, quest’estate no anche perché ha deciso di tenere solo due concerti a maggio, mentre in estate nessuno. Insomma, non si è presentata l’occasione».

L’anno scorso chiudendo il festival ha parlato della necessità di un rinnovamento sia sul piano della formula che su quello della proposta musicale. Pensa di aver centrato l’obiettivo o c’è ancora da lavorare?

«L’anno scorso ho lanciato alcune osservazioni. Come per ogni progetto occorre del tempo: alcune cose si sono potute fare, altre le abbiamo seminate e ne vedremo i frutti. Qui c’è un’atmosfera unica e questo va sottolineato. La vera magia che va conservata riguarda le molteplici anime del festival: ci sono i grandi concerti, quelli gratuiti nella meravigliosa cornice del centro e il Morlacchi per la musica più legata al jazz».

In concreto cosa pensa di voler fare?

«Un’evoluzione possibile, ma è solo un mio parere, è quella che guarda a un coinvolgimento di altri luoghi, ma c’è da affrontare il problema dei costi. Un festival che si allarga e si diffonde necessità di più ossigeno».

E sul piano della proposta musicale?

«La strada continua a essere questa: c’è la necessità per tutti i grandi festival di riuscire ad allargare il proprio pubblico in modo tale da non essere considerati di nicchia ma popolari. UJ lo ha fatto dalla sua nascita e il jazz per le sue caratteristiche si presta molto alla contaminazione. Il jazz è simbolo di integrazione e questa è la sua forza; una forza in grado di arrivare a un pubblico più giovane».

Al purista che storce il naso guardando il cartellone dell’Arena che dice?

«Dico che questo festival per essere mantenuto in queste dimensioni necessita inevitabilmente di avere un cartellone che all’Arena, visti anche gli spazi, deve proporre artisti di richiamo importante. I grandi stanno scomparendo e quindi serve aprirsi e questo il purista lo vede sempre come una forzatura; però il purista non accetterebbe mai di veder ridimensionare il festival, quindi il nostro sforzo deve essere quello di trovare maggiori supporti da parte del Ministero, dove finalmente c’è un ministro sensibile al jazz, e da parte dei privati».

Quanto costa Umbria Jazz?

«Complessivamente tre milioni. Più o meno un milione arriva dal botteghino, uno dagli sponsor privati e uno da quelli pubblici».

Pensando all’Arena e ai suoi costi, a Umbria Jazz farebbe comodo una struttura fissa?

«Sì, la necessità di avere una struttura fissa e non ‘occasionale’ senz’altro è una considerazione da fare».

A Milano settimane fa, nell’ambito di un’iniziativa di Regione e UJ all’interno dello Spazio Adi, era presente un’importante delegazione cinese. Quali sono i rapporti tra il festival e la Cina?

«Questa opportunità è stata indicata dalla Regione, che da anni tesse una serie di rapporti con loro. Lo scorso anno c’è stata una prima missione di conoscenza con le regioni e le cose stanno procedendo. Noi possiamo mettere a disposizione il nostro prestigio, la capacità di presentare i nostri musicisti migliori. Ci sono reti e contatti. L’anno scorso ad esempio è stato da noi il neo presidente dell’associazione dei musicisti jazz cinesi, che usciva per la prima volta dal proprio paese e che è rimasto incantato dal festival. Questo potrebbe essere un partner importante».

Avete già individuato sponsor e istituzioni?

«Sì, ci sono dei canali aperti dalla Regione e sponsor sono stati contattati. Nei prossimi giorni una delegazione arriverà qui e nuove riunioni sono previste ad agosto e settembre. Complessivamente un progetto da concretizzare con un primo episodio nella primavera del 2016, che serva da base sulla quale costruire».

Umbria Jazz è un festival che nel resto dell’anno a Perugia non vive. Cosa si può fare per cambiare le cose?

«Nel 2014 avevo accennato, anche al sindaco Romizi, a un’ipotesi, ovvero quella di provare a trovare una sede aperta tutto l’anno dove ospitare non solo e non tanto i nostri uffici ma uno spazio aperto al pubblico, dove raccogliere materiali come registrazioni, foto, manifesti e altro ancora. Un luogo per fare presentazioni di libri e dischi, incontri con musicisti, guide all’ascolto. Insomma, una casa per Umbria jazz, che aiuterebbe a dare la percezione di cosa facciamo e di quanto sia importante questo festival. In più serve radicarsi con altre realtà culturali e fare più rete. Quanto al luogo fisico attendiamo e vediamo, ma se ne è riparlato sia con il sindaco che con l’assessore Severini, che condividono questa visione. È un obiettivo importante e la città ne beneficerebbe».

ECCO PERCHÉ A PERUGIA SERVIREBBE UNA CASA DEL JAZZ

Consigli al pubblico due concerti da non perdere, uno all’Arena e uno al Morlacchi.

«All’Arena direi il doppio set che terranno Joshua Redman e gli Snarky Puppy, artisticamente molto interessanti. I secondi sono una delle giovani formazioni americane che si stanno imponendo nel mondo, una piccola big band che mescola jazz, funk e prog-rock. Redman invece è già stato protagonista a UJ ma con questo assemblaggio è la prima volta. Quanto al Morlacchi, è difficile dire di no alla proposta di tornare a gustare Mehldau in quell’atmosfera».

Twitter @DanieleBovi

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