Amanda Knox in lacrime pochi istanti dopo l'assoluzione (Foto F.Troccoli)

di Ivano Porfiri e Maurizio Troccoli

In 143 pagine i giudici di secondo grado spiegano perché si è giunti al verdetto di assoluzione per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, il 3 ottobre scorso.

Prove insussistenti La Corte di Assise di appello di Perugia sottolinea «la insussistenza materiale, prima ancora che la equivocità, degli elementi indiziari» a carico di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, che in primo grado sono stati considerati tali da legittimare la loro condanna. Così i giudici di secondo grado hanno motivato la sentenza di assoluzione.

Elementi confermati Secondo la Corte gli unici elementi che rimangono fermi rispetto alla sentenza di colpevolezza sono la calunnia di Amanda nei confronti di Patrick Lumumba e la «non totalmente comprovata veridicità dell’alibi (che è situazione ben diversa della ritenuta falsità del medesimo) ed infine la dubbia attendibilità del testimone Quintavalle». Tutto il resto della sentenza di primo grado viene smontato.

LE 143 PAGINE DI MOTIVAZIONI IN PDF

Ora della morte Scrive la Corte che «tutti gli altri elementi sono venuti meno nella loro materialità: così è per l’ora della morte accertata in primo grado dopo le 23 e individuata dalla corte d’appello intorno alle ore 22.15».

Le altre prove Secondo la Corte d’Appello sono venuti meno anche gli altri elementi considerati prove «regina» in primo grado, tra cui le indagini genetiche effettuate dalla polizia scientifica sia per l’analisi delle impronte sia per le altre tracce rilevate all’interno dell’abitazione di via della Pergola come è «venuta meno» la validità dell’attività della polizia per l’individuazione dell’arma del delitto e «per la presenza di Raffaele Sollecito e Amanda Knox nella casa al momento del delitto». Vale lo stesso per la corte rispetto alla «ritenuta simulazione della penetrazione nella casa di via della Pergola mediante effrazione dalla finestra» come per «il comportamento tenuto dai due imputati la mattina del 2 novembre e nei giorni successivi».

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Il giudizio sulla Corte di primo grado Secondo i giudici di appello la Corte di primo grado «ha ritenuto di poter coordinare elementi di fatto, ritenuti di per se stesso certi ma di significato non del tutto univoco, in un quadro unitario nell’ambito del quale ciascuno di quegli elementi potesse conseguire un chiarimento definitivo e tutti, nel loro insieme, un significato univoco, sì da assurgere a prova di colpevolezza».

Manca il materiale Non sono soltanto stati collocati diversamente «i mattoni di una costruzione» colpevolista, ma si tratta di una «mancanza del materiale necessario per la costruzione ed il venir meno degli elementi materiali del progetto accusatorio non consente, ovviamente, di pervenire ad una pronuncia di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio».

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Sentenza basata su probabilità Secondo la Corte di secondo grado la ricostruzione dei fatti da parte dei giudici «avviene sempre secondo un criterio di probabilità. La parola ‘probabile’ o ‘improbabile’ – sottolineano – ricorre ben 39 volte nel  corso della motivazione».

Movente Per i giudici di appello, il movente oltre a «non essere corroborato da alcun elemento obiettivo di prova, è esso stesso niente affatto probabile: la scelta improvvisa da parte dei due giovani, bravi e disponibili verso gli altri, del male per il male, così, senza altra utilità, tantopiù incomprensibile perché diretta a sostenere l’azione criminosa di Rudy Guede con il quale non avevano alcun rapporto».

Coltello Secondo i giudici di appello «non è corroborata da alcun elemento obiettivo di prova ed è del tutto inverosimile la presenza in via della Pergola, al momento del delitto, di un coltello in dotazione alla cucina dell’abitazione di Raffaele Sollecito.

Mistero sull’omicidio Secondo i giudici di appello «il venir meno degli elementi indiziari esonera dal dover prospettare una ipotesi alternativa. Esclusa la sussistenza della prova di colpevolezza a carico dei due imputati, non spetta a questa Corte prospettare quale possa essere stato il reale svolgimento della vicenda, né se l’autore del reato sia stato uno o più di uno, né se siano state o meno trascurate altre ipotesi investigative. Quello che rileva ai fini della decisione è soltanto la mancanza di prova di colpevolezza degli attuali imputati.

Non provato concorso con Rudy I giudici, valutando il peso della sentenza di condanna a Rudy Guede sul processo ad Amanda e Raffaele, spiegano che dal nuovo dibattimento non può essere confermala la «ipotesi del necessario concorso di più persone nel reato». Infatti «l’analisi dei singoli elementi, sui quali riposa l’ipotesi del concorso, induce quantomeno a dubitare della necessaria partecipazione di più persone nella consumazione dei delitti contestati e ad escludere, pertanto, che, anche sotto questo profilo soltanto (concorso di persone), la sentenza concernente Rudy Guede possa rappresentare un elemento di valutazione determinante ai fini dell’accertamento della responsabilità degli attuali imputati. E comunque, anche a voler tenere ferma l’ipotesi del concorso, non per questo la sentenza assume valore probatorio determinante per riconoscere negli attuali imputati i correi di Rudy Guede. Ne deriva che tale sentenza, condivisibile per quanto concerne la responsabilità di Rudy (che non viene certo meno dal ritenere maggiormente attendibile l’ipotesi dell’unico agente) in quanto gli elementi a carico di lui sono numerosi ed univoci non assume alcuna rilevanza probatoria per quanto concerne l’accertamento della responsabilità degli attuali imputati».

Giudici: «Gravoso impegno» «Termina qui il gravoso impegno di questa corte, che ha visto tutti i giudici, popolari e togati, accomunati da un profondo sentimento di giustizia ma anche di umiltà dinnanzi al dramma oscuro delle vicende umane, nella condivisa convinzione che “anche se l’errore giudiziario non potrà mai essere del tutto eliminato la regola introdotta vale a significare che l’ordinamento, se tollera l’assoluzione del colpevole, non tollera però la condanna dell’innocente” (sentenza Suprema corte 40320 del 12/11/2009)».

Amanda indotta ad accusare Patrick Per la Corte d’assise d’Appello di Perugia Amanda sarebbe stata in una certa misura indotta ad accusare Patrick Lumumba a ridosso dell’omicidio nel novembre del 2007. Scrivono infatti i giudici: «per valutare la reale portata delle dichiarazioni ‘spontanee’ e del memoriale scritto praticamente subito dopo, occorre tenere conto del contesto nel quale sono state rese le prime e redatto il secondo». «La durata ossessiva degli interrogatori – spiegano i giudici -, portati avanti di giorno e di notte, condotti da più persone nei confronti di una ragazza straniera, che all’epoca non comprendeva né parlava affatto la lingua italiana, ignara dei propri diritti, privata dell’assistenza di un difensore, rende del tutto comprensibile che ella si trovasse in una situazione di notevole pressione psicologica – che definire stress appare riduttivo – tale da far dubitare della effettiva spontaneità delle dichiarazioni».

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